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Etruscan alphabet

Etruscan alphabet

The Etruscan alphabet developed from a Western variety of the Greek alphabet brought to Italy by Euboean Greeks. The earliest known inscription dates from the middle of the 6th century BC. Most Etruscan inscriptions are written in horizontal lines from rigth to left, but some are boustrophedon (running alternately left to right then right to left).
More than 10,000 Etruscan inscriptions have been found on tombstones, vases, statues, mirrors and jewellery. Fragments of an Etruscan book made of linen have also been found. Etruscan texts can be read: i.e. the pronunciation of the letters is known, though scholars are not sure what all the words mean.
No major literary works in Etruscan have survived, however there is evidence for the existence of religious and historical literature and drama. It is also possible that the Etruscans had a notation system for music.
The Etruscan language was spoken by the Etruscans in Etruria (Tuscany and Umbria) until about the 1st century AD, after which it continued to be studied by priests and scholars. The emperor Claudius (10 BC - 54 AD) wrote a history of the Etruscans in 20 volumes, none of which have survived, based on sources still preserved in his day. The language was used in religious ceremonies until the early 5th century.
Etruscan was related to Raetic, a language once spoken in the Alps, and also to Lemnian, once spoken on the island of Lemnos. It was also possibly related to Camunic, a language once spoken in the northwest of Italy.

Archaic Etruscan alphabet (7th-5th centuries BC)

Archaic Etruscan alphabet

Neo-Etruscan alphabet (4th-3rd centuries BC)

Neo-Etruscan alphabet

Sample text in Etruscan


Sample text in Etruscan
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Proclamati i vincitori della iv edizione del Premio Raduga

Proclamati i vincitori della iv edizione del Premio Raduga

CULTURA: PROCLAMATI I VINCITORI DELLA IV EDIZIONE DEL PREMIO RADUGA, CONCORSO LETTERARIO ITALO RUSSO PER SCRITTORI E TRADUTTORI UNDER 35.

CULTURA ASSET STRATEGICO PER INTENSIFICARE E INNALZARE RELAZIONI ANCHE ECONOMICHE TRA I DUE PAESI.



(Vicenza, 28 giugno 2013). Fabio Chiriatti (Martignano, Lecce) e Elisabetta Spediacci (Torino) sono i vincitori della IV edizione del Premio Raduga, rispettivamente per le categorie ‘giovane autore italiano dell’anno’ e ‘giovane traduttore italiano dell’anno’. L’annuncio è stato dato oggi a Vicenza, nel corso della cerimonia di proclamazione ospitata alle Gallerie d’Italia di Palazzo Leoni Montanari, sede museale di Intesa Sanpaolo a Vicenza. Istituito nel 2010 dall’Associazione Conoscere Eurasia con sede a Verona e dall’Istituto Letterario Gorky di Mosca, da 80 anni epicentro della cultura russa, il Premio Raduga è attualmente tra i riconoscimenti più prestigiosi nel panorama delle relazioni interculturali italo-russe, destinato agli aspiranti scrittori e traduttori under 35 dei due Paesi e realizzato in collaborazione con il Centro russo di Scienza e Cultura di Roma, Istituto italiano di Cultura a Mosca e P.E.N. Club Italia ONLUS, con il patrocinio di Rospechat', l'Agenzia Federale per la stampa e le comunicazioni di massa e il sostegno di Banca Intesa Russia, Gruppo editoriale Azbooka-Atticus e Feltrinelli Editore.

Due le giurie che hanno selezionato le oltre 60 opere iscritte alla IV edizione del concorso: quella italiana guidata da Inge Feltrinelli, presidente Giangiacomo Feltrinelli Editore, e quella russa condotta dal rettore dell’Istituto Gorky, Boris Tarasov.

“Il Premio Raduga, in sole quattro edizioni, ha saputo accreditarsi tra i concorsi letterari di eccellenza per gli aspiranti autori e traduttori italiani e russi” – ha dichiarato Antonio Fallico, presidente dell’Associazione Conoscere Eurasia e di Banca Intesa Russia – “diventando una grande opportunità di visibilità e di inserimento per i giovani nel mondo letterario. L’Italia – ha proseguito Fallico – gioca un ruolo di trait d’union tra l’Europa e l’Asia grazie all’interscambio commerciale e ai legami culturali che stanno alla base delle relazioni tra Italia e Russia. Per questo la cultura fa parte degli asset strategici per l’intensificazione e l’innalzamento anche della cooperazione economica”.

Per Boris Tarasov, rettore dell’Istituto Letterario Gorky: “In un’epoca di degrado che invade stili e contenuti, il Premio Raduga dimostra che ci sono ancora giovani aspiranti letterati che scelgono la strada più ardua e difficile per perfezionare il loro talento, invece di puntare sul raggiungimento immediato del successo”.

Completano la rosa dei vincitori del Premio Raduga 2013, Elena Tarkhanova, ‘giovane autore russo dell’anno’ di Lys’va (Regione di Perm, Russia) ma attualmente residente a Galbiate (Lecco) e Valentina Marcevaja-Kucerovskaja di Minsk (Bielorussia) che si aggiudica il titolo di ‘giovane traduttore russo dell’anno’. I vincitori, le cui opere saranno pubblicate sull’Almanacco Letterario in distribuzione in Italia e in Russia, hanno ricevuto anche un premio in denaro del valore di 5.000 euro per la sezione ‘giovane autore dell’anno’ e di 2.500 euro per quella riservata al ‘giovane traduttore dell’anno’.

Alle Gallerie d’Italia di Palazzo Leoni Montanari, a Vicenza, per la proclamazione dei vincitori della IV edizione del Premio Raduga erano presenti, tra gli altri: Inge e Carlo Feltrinelli; Alexandr Mamut, Presidente CdA di Azbooka-Atticus (una delle più grandi case editrice in Russia); Elena Pasternak, nipote dello scrittore e docente all’Università Statale di Mosca; Alexey Varlamov, scrittore; Evgenij Sokonovic, celebre traduttore; Sebastiano Grasso, presidente Pen Club Italia e Olga Lein, CEO Banca Intesa Russia.
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Sinodo o collegio? Il traduttore corregge il papa

Sinodo o collegio? Il traduttore corregge il papa

Nella terza e ultima parte dell’omelia pronunciata nella festa dei santi Pietro e Paolo, alla presenza di rappresentanti del patriarcato ecumenico di Costantinopoli, Francesco ha citato tre volte la “Lumen gentium”, la costituzione del Concilio Vaticano II sulla Chiesa.
La prima citazione era tratta dal paragrafo 18, che “come oggetto certo di fede” ripropone “la dottrina della istituzione, della perpetuità, del valore e della natura del sacro primato del romano pontefice e del suo infallibile magistero”.
La seconda era tratta dal paragrafo 19, che ricorda come Gesù costituì gli apostoli “dando loro la forma di collegio, cioè di un gruppo stabile, del quale mise a capo Pietro, scelto di mezzo a loro”.
La terza era tratta dal paragrafo 22, che ribadisce che “il collegio o corpo episcopale non ha autorità, se non lo si concepisce unito al pontefice romano, successore di Pietro, quale suo capo, e senza pregiudizio per la sua potestà di primato su tutti, sia pastori che fedeli”.
Nell’intera costituzione “Lumen gentium” non si fa menzione dell’istituzione denominata sinodo dei vescovi. Anzi, la stessa parola “sinodo” quasi neppure c’è. Vi ricorre una sola volta, come sinonimo del concilio ecumenico stesso.
Del sinodo dei vescovi, in tutti i documenti del Vaticano II si parla brevemente: soltanto nel paragrafo 5 del decreto “Christus Dominus” sulla missione pastorale dei vescovi. Dove si legge:
“Una più efficace collaborazione al supremo pastore della Chiesa la possono prestare, nei modi dallo stesso romano pontefice stabiliti o da stabilirsi, i vescovi scelti da diverse regioni del mondo, riuniti nel consiglio propriamente chiamato sinodo dei vescovi. Tale sinodo, rappresentando tutto l’episcopato cattolico, è un segno che tutti i vescovi sono partecipi in gerarchica comunione della sollecitudine della Chiesa universale”.
È accaduto però che papa Francesco, nel pronunciare la terza parte della sua omelia, sia sia distaccato in tre punti dal testo scritto. E abbia preferito dire “sinodo dei vescovi” invece che “collegio dei vescovi”, e “sinodalità” invece che “collegialità”.
Ecco qui di seguito la trascrizione integrale di questa terza parte dell’omelia, con sottolineate le aggiunte orali al testo scritto:
“Confermare nell’unità. Qui mi soffermo sul gesto che abbiamo compiuto. Il Pallio è simbolo di comunione con il Successore di Pietro, ‘principio e fondamento perpetuo e visibile dell’unità della fede e della comunione’ (Conc. Ecum Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen gentium, 18). E la vostra presenza oggi, cari Confratelli, è il segno che la comunione della Chiesa non significa uniformità. Il Vaticano II, riferendosi alla struttura gerarchica della Chiesa afferma che il Signore ‘costituì gli Apostoli a modo di collegio o gruppo stabile, a capo del quale mise Pietro, scelto di mezzo a loro’ (ibid., 19). Confermare nell’unità: il Sinodo dei Vescovi, in armonia con il primato. Dobbiamo andare per questa strada della sinodalità, crescere in armonia con il servizio del primato. E il Concilio continua: ‘questo Collegio, in quanto composto da molti, esprime la varietà e universalità del Popolo di Dio’ (ibid., 22). Nella Chiesa la varietà, che è una grande ricchezza, si fonde sempre nell’armonia dell’unità, come un grande mosaico in cui tutte le tessere concorrono a formare l’unico grande disegno di Dio. E questo deve spingere a superare sempre ogni conflitto che ferisce il corpo della Chiesa. Uniti nelle differenze: non c’è un’altra strada cattolica per unirci. Questo è lo spirito cattolico, lo spirito cristiano: unirsi nelle differenze. Questa è la strada di Gesù! Il Pallio, se è segno della comunione con il Vescovo di Roma, con la Chiesa universale, con il Sinodo dei Vescovi, è anche un impegno per ciascuno di voi ad essere strumenti di comunione”.
Non è la prima volta che papa Jorge Mario Bergoglio fa capire d’essere intenzionato a rafforzare il ruolo del sinodo dei vescovi.
Ma questa volta si è espresso oralmente in una forma che – se messa per iscritto in anticipo – avrebbe fatto alzare il sopracciglio a qualche revisore della congregazione per la dottrina della fede. Perché un sinodo dei vescovi, istituto parziale e transeunte, non è la stessa cosa del collegio episcopale universale, costitutivo da sempre e per sempre della struttura della Chiesa.
Così, quando il traduttore ufficiale in francese dell’omelia di papa Francesco, arrivato all’ultima riga della terza parte si è imbattuto in questa approssimazione, gli è scappato di… correggere il papa, mettendo tra parentesi la traduzione letterale accompagnata da un punto interrogativo:
“… avec le Collège (Synode?) des évêques…”.
Ai giornalisti accreditati presso la sala stampa vaticana, la prima versione in francese dell’omelia del papa è arrivata così come sopra, poco dopo la fine della celebrazione.
Solo più tardi, quando l’omelia è comparsa nel sito del Vaticano, la versione francese è apparsa pulita, senza più la glossa del traduttore.
“… avec le Synode des évêques…”.
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Giustizia: rischio prescrizione per la traduzione del dialetto che non c’è…

Giustizia: rischio prescrizione per la traduzione del dialetto che non c’è…

Il lettore prenda il “Corriere della Sera” di oggi, giovedì 27 giugno, vada a pagina 13, l’articolo di Riccardo Bruno, impaginato in fondo. Il titolo è già un programma: “Aosta, processo a rischio prescrizione. Quattro periti per tradurre dal dialetto”.

Mette curiosità, vero? Leggiamo il pezzo, dunque:
“E pensare che l’inchiesta era partita da un’intercettazione: ‘Metti via quelle paillettes dal frigo’. Gli allevatori parlavano in patois, il dialetto valdostano. Le “paillettes” erano fiale con il liquido seminale di toro svizzero. Vennero trovate nel freezer di un alpeggio dove le mucche dovevano essere rigorosamente della varietà locale. Inchiesta con arresti e decine di indagati: truffa ai danni della Regione, maltrattamento di animali, una fontina poco dop, latte dannoso alla salute, strana migrazione di bovini al confine. E centinaia di pagine di intercettazioni. In patois, appunto. Dialetto franco-provenzale così difficile da decifrare (soprattutto ascoltando le registrazioni telefoniche), che dopo cinque anni dal primo blitz dei NAS il processo è ancora a un punto morto. Due giorni fa i periti, incaricati di tradurre e trascrivere i dialogo tra gli allevatori, hanno chiesto al giudice una proroga. L’ennesima. E adesso c’è il rischio che la prescrizione sia più veloce dell’ultimo grado di giudizio. L’elenco delle date dà già un’idea dei grattacapi del GUP Giuseppe Colazingari. Nel dicembre 2012 parte l’udienza preliminare. Il mese dopo viene affidato l’incarico per le trascrizioni al perito Jeannette Bondaz: ha 90 giorni di tempo per finire il lavoro. A maggio l’esperta chiede 60 giorni di proroga. Gli vengono concessi, A ottobre la situazione non è migliorata: il giudice decide di nominare un secondo perito, Josianne Bovard, e fissa altri 50 giorni per ultimare il lavoro. Quando scadono, ne aggiunge ulteriori 30 giorni. Non bastano ancora. Lo scorso febbraio arrivano in soccorso altri due periti, Francesca Lucianaz e Sylvie Voyat. Il poker di traduttori ha a disposizione 4 mesi, 120 giorni per portare finalmente in aula le intercettazioni comprensibili in italiano. Il destino dei 59 imputati – allevatori, produttori e veterinari – è appeso all’esatta interpretazione di quelle frasi in dialetto. E’ una perizia cruciale. La nuova udienza era prevista per il prossimo 9 luglio. Ma i quattro hanno già alzato bandiera bianca e chiesto ancora un po’ di tempo. In un sistema processuale come quello italiano già lento e farraginoso, l’aggravante del dialetto può essere un colpo mortale al raggiungimento della giustizia. E’ un problema non da poco per il giudice. Anzi per il “dzeudzo”, come si dice a Courmayeur, o il “djeudjo” come si usa a Brusson, o il “Juje” utilizzato a Monjovet. Perché il patois non è uno solo, e cambia al cambiare delle vallate”.

Fin qui, la cronaca. E si dirà che è un caso limite. Non c’è dubbio. E non ci sono recriminazioni particolari da muovere, accuse di una possibile ignavia da parte dei magistrati o che altro. Però, vista con gli occhi del cittadino: ma che giustizia è mai questa che non riesce a cavare un ragno da un buco in ben cinque anni, e ci sono una sessantina di imputati che non sanno se e come sono colpevoli, e di cosa esattamente; e che da gennaio 2012 a luglio 2013, fatte salve tutte le difficoltà che può comportare un dialetto difficile e complicato come il patois, quattro traduttori ancora non siano riusciti a “decodificare” il contenuto di intercettazioni telefoniche. E per fortuna che gli imputati non parlavano in dialetto navajo…

Ad ogni modo – peccato che l’articolo non ce ne informi – quanto è costato finora, al contribuente tutto questo ambaradan? E’ piccola cosa, d’accordo, che si consuma in una procura “periferica” all’apparenza, in una realtà e in un contesto sonnolento e pacioso (ma non ci giureremmo troppo: di solito le realtà più “silenziose” sono anche quelle che meriterebbero più attenzione). Ma sono questi “piccoli” episodi a comporre il più generale quadro di sfacelo e, si sarebbe tentati di dire, irredimibilità della giustizia italiana. E di questo caso paradossale comunque, si parla e si è venuti a conoscenza; ed è da credere – o almeno sperare – che qualcuno ne provi vergogna e ne trovi un possibile rimedio. Ma quanti casi come quello di Aosta si consumano ogni giorno, tra la generale indifferenza e in compiacimento di più d’uno?
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Kayah Li

Kayah Li   Kayah Li

Kayah or Kayah Li is a member of Karen branch of the Sino-Tibetan language family. It is spoken by about 590,000 people in the Kayah and Karen states of Burma (Myanmar). The language and people who speak it are also known as Western Kayah, Karenni, Karennyi, Red Karen, Yang Daeng or Karieng Daeng.
The Kayah Li alphabet was devised by Htae Bu Phae in March 1962. It is taught in schools in refugee camps in Thailand. It appears to be modelled, to some extent, on scripts such as Thai and Burmese.

Notable features

  • Type of writing system: alphabet
  • Direction of writing: left to right in horizontal lines
  • Consonants Other vowels are written with separate letters or with diacritics attached to the letter a.
  • Tones are indicated by diacritics below the consonants.
  • Used to write: Kayah or Kayah Li, a Karen language spoken in Burma by about 590,000 people.

Kayah Li alphabet