Giustizia: rischio prescrizione per la traduzione del dialetto che non c’è…
Giustizia: rischio prescrizione per la traduzione del dialetto che non c’è…
Il lettore prenda il “Corriere della Sera” di oggi, giovedì 27 giugno, vada a pagina 13, l’articolo di Riccardo Bruno, impaginato in fondo. Il titolo è già un programma: “Aosta, processo a rischio prescrizione. Quattro periti per tradurre dal dialetto”.
Mette curiosità, vero? Leggiamo il pezzo, dunque:
“E pensare che l’inchiesta era partita da un’intercettazione: ‘Metti via quelle paillettes dal frigo’. Gli allevatori parlavano in patois, il dialetto valdostano. Le “paillettes” erano fiale con il liquido seminale di toro svizzero. Vennero trovate nel freezer di un alpeggio dove le mucche dovevano essere rigorosamente della varietà locale. Inchiesta con arresti e decine di indagati: truffa ai danni della Regione, maltrattamento di animali, una fontina poco dop, latte dannoso alla salute, strana migrazione di bovini al confine. E centinaia di pagine di intercettazioni. In patois, appunto. Dialetto franco-provenzale così difficile da decifrare (soprattutto ascoltando le registrazioni telefoniche), che dopo cinque anni dal primo blitz dei NAS il processo è ancora a un punto morto. Due giorni fa i periti, incaricati di tradurre e trascrivere i dialogo tra gli allevatori, hanno chiesto al giudice una proroga. L’ennesima. E adesso c’è il rischio che la prescrizione sia più veloce dell’ultimo grado di giudizio. L’elenco delle date dà già un’idea dei grattacapi del GUP Giuseppe Colazingari. Nel dicembre 2012 parte l’udienza preliminare. Il mese dopo viene affidato l’incarico per le trascrizioni al perito Jeannette Bondaz: ha 90 giorni di tempo per finire il lavoro. A maggio l’esperta chiede 60 giorni di proroga. Gli vengono concessi, A ottobre la situazione non è migliorata: il giudice decide di nominare un secondo perito, Josianne Bovard, e fissa altri 50 giorni per ultimare il lavoro. Quando scadono, ne aggiunge ulteriori 30 giorni. Non bastano ancora. Lo scorso febbraio arrivano in soccorso altri due periti, Francesca Lucianaz e Sylvie Voyat. Il poker di traduttori ha a disposizione 4 mesi, 120 giorni per portare finalmente in aula le intercettazioni comprensibili in italiano. Il destino dei 59 imputati – allevatori, produttori e veterinari – è appeso all’esatta interpretazione di quelle frasi in dialetto. E’ una perizia cruciale. La nuova udienza era prevista per il prossimo 9 luglio. Ma i quattro hanno già alzato bandiera bianca e chiesto ancora un po’ di tempo. In un sistema processuale come quello italiano già lento e farraginoso, l’aggravante del dialetto può essere un colpo mortale al raggiungimento della giustizia. E’ un problema non da poco per il giudice. Anzi per il “dzeudzo”, come si dice a Courmayeur, o il “djeudjo” come si usa a Brusson, o il “Juje” utilizzato a Monjovet. Perché il patois non è uno solo, e cambia al cambiare delle vallate”.
Fin qui, la cronaca. E si dirà che è un caso limite. Non c’è dubbio. E non ci sono recriminazioni particolari da muovere, accuse di una possibile ignavia da parte dei magistrati o che altro. Però, vista con gli occhi del cittadino: ma che giustizia è mai questa che non riesce a cavare un ragno da un buco in ben cinque anni, e ci sono una sessantina di imputati che non sanno se e come sono colpevoli, e di cosa esattamente; e che da gennaio 2012 a luglio 2013, fatte salve tutte le difficoltà che può comportare un dialetto difficile e complicato come il patois, quattro traduttori ancora non siano riusciti a “decodificare” il contenuto di intercettazioni telefoniche. E per fortuna che gli imputati non parlavano in dialetto navajo…
Ad ogni modo – peccato che l’articolo non ce ne informi – quanto è costato finora, al contribuente tutto questo ambaradan? E’ piccola cosa, d’accordo, che si consuma in una procura “periferica” all’apparenza, in una realtà e in un contesto sonnolento e pacioso (ma non ci giureremmo troppo: di solito le realtà più “silenziose” sono anche quelle che meriterebbero più attenzione). Ma sono questi “piccoli” episodi a comporre il più generale quadro di sfacelo e, si sarebbe tentati di dire, irredimibilità della giustizia italiana. E di questo caso paradossale comunque, si parla e si è venuti a conoscenza; ed è da credere – o almeno sperare – che qualcuno ne provi vergogna e ne trovi un possibile rimedio. Ma quanti casi come quello di Aosta si consumano ogni giorno, tra la generale indifferenza e in compiacimento di più d’uno?
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