Intervista a Luca Ward

Una delle più grandi voci del doppiaggio italiano


La nostra serie d'interviste ai più grandi doppiatori italiani, non progettata e non certa di proseguire oltre questa, continua: dopo Giancarlo Giannini al Festival di Giffoni abbiamo incontrato Luca Ward in occasione di una serata organizzata dalla boutique Nespresso di Roma in occasione della presentazione di due nuove varianti del noto caffè. Ward era lì per presentare quattro letture di brani di prosa, per allietare ad intervalli regolari l'evento. Ma quando vino e assaggini vari hanno cominciato a girare, l'interesse verso le performances dell'attore è decisamente scemato, per la gioia delle orde di fashion blogger venute lì esclusivamente per commentare l'ultimo abito del, per dirne uno, primo Sebastiano Somma di passaggio. Ma tutto questo corollario, un potenziale perfetto extra per il dvd de "La grande bellezza", ci ha comunque permesso di farci una chiacchierata con una delle migliori voci cinematografiche del panorama nostrano, quindi fatene tante altre, noi continueremo a non capire ma ci saremo. 

Davvero gentile e disponibile Ward (per chi non lo sapesse, il doppiatore storico di Russell Crowe e Samuel L. Jackson, tra gli altri), che si sottopone alla mia intervista in un cortiletto di disimpegno, inframezzandoci anche un paio di sigarette. Caratteristica che lo accomuna con Giannini, e quindi il dubbio è legittimo: le sigarette contribuiscono a rendere profonda e "interessante" la voce, accorciano la vita ma allungano la carriera? Continueremo questa serie d'interviste anche solo per chiedere ad un terzo doppiatore conferma di questa cosa.


Non si può pensare di entrare per la prima volta in sala doppiaggio e interpretare un protagonista, o un antagonista che è ancora più difficile
Attore, doppiatore, voce pubblicitaria, telenovelas, ogni possibile professione legata alla recitazione. Considera quest'eclettismo potenzialmente presente in ogni attore o lo ritiene una sua qualità specifica?
Guardi, io ho frequentato giovanissimo la televisione degli anni Settanta. Parlando con i grandi dell'epoca, Foà, Gassman, Tognazzi, tutti mi hanno sempre detto la stessa cosa: se vuoi sempre un piatto di minestra caldo a tavola devi fare TUTTO. E quindi doppiaggio, e quindi le fiction da attore, e quindi il teatro, perfino le telenovelas (e anche questa serata, n.d.r.). Io in questo modo non rimango mai senza lavorare, sono cresciuto da sempre con questa mentalità: riesco a fare qualcosa praticamente tutti i giorni, ed è una cosa che dà grande sicurezza per il futuro. Molti miei colleghi che fanno solo cinema, o solo TV, stanno per mesi senza lavorare tra una produzione e l'altra, a volte.

La professione dell'attore è magnifica anche perché permette, recitando, di diventare una vasta tipologia di tipi umani, di esplorare davvero la complessità di un numero altissimo di diversi caratteri. Il doppiatore, invece, deve fare un lavoro doppio? Deve calarsi il più possibile anche nei panni dell'attore che sta interpretando il personaggio?
Il doppiaggio è una cosa davvero particolare perché è un ibrido, un tramite per portare fuori dalla propria nazione una particolare produzione. Noi doppiatori dobbiamo sincronizzarci sul lavoro, sui respiri, sulle pause, sulla respirazione di qualcuno differente da noi, magari molto differente, e dobbiamo comunque cercare di comunicare un'emozione. Non è una cosa semplice.
Sono tempi duri anche per noi, comunque. Stiamo perdendo lo scettro di migliori doppiatori nel mondo che abbiamo sempre avuto qui in Italia, e questo perché si cerca continuamente di tagliare le spese. Prima capitava che per ultimare un doppiaggio ci dessero dalle otto alle dieci settimane, oggi ce ne danno una. La qualità viene meno, inevitabilmente.

L'elenco degli attori che lei ha doppiato è impressionante. Oltre a tutte le star contemporanee ha spaziato anche nella storia del cinema, passando dal doppiare Gary Cooper in una riedizione di "Addio alle armi" a Joe Dallesandro, il non-attore dei cult di Andy Warhol. C'è ancora qualcosa che non è riuscito a fare, o ritiene di aver raggiunto tutti gli obiettivi?
Una cosa ci sarebbe, mi piacerebbe tanto doppiare il personaggio di Gesù, ma ancora non ci sono riuscito. Quando Zeffirelli fece il suo film con Robert Powell ero troppo giovane, oggi forse sono troppo vecchio. Ma io ci spero ancora.

La sua carriera è stata lanciata anche da due film del 1994, che sono diventati due cult assoluti. Sto parlando di "Pulp Fiction" e de "Il corvo", dove lei doppiava il prematuramente scomparso Brandon Lee. C'era la percezione durante i doppiaggi che quei film sarebbero rimasti così tanto nella memoria collettiva, specialmente "Pulp Fiction"?
Gli anni Novanta erano un periodo particolare. Si lavorava tanto e bene, io quell'anno ho doppiato anche "Quattro matrimoni e un funerale" e "Goldeneye", il primo 007 di Pierce Brosnan dopo quasi dieci anni di silenzio bondiano. La risposta è sì, c'era la percezione di star facendo del grande cinema con dei grandi doppiaggi. Non so se sia un periodo ripetibile, sia nei doppiaggi che nel cinema tout court, che credo stia passando un momento generalmente complicato, un po' di stasi.
C'è poca voglia di rischiare.

Il suo doppiaggio di Jules Winnfield/Samuel L. Jackson in "Pulp Fiction" è quasi unanimemente considerato dalla critica italiana migliore della stessa prestazione dell'attore afroamericano. 
Mi sono definitivamente accorto dell'importanza di quel doppiaggio un pomeriggio a Roma, passeggiando qui in via del Corso. Due ragazzi mi fermano per chiedermi un autografo proprio per quel film, e noto che sulla maglietta di uno di questi c'era tutto il brano di "Ezechiele 25,17". L'importanza di quel lavoro fu data anche dai dialoghi adattati da Francesco Vairano, dalla direzione del doppiaggio di Pino Colizzi, è anche per le loro alte professionalità che siamo passati alla storia.

E sempre per rimanere nell'ambito Jackson/Tarantino, anche con "Jackie Brown" lei realizzò un'ottima prova.
Un film meno apprezzato, ma il ruolo di Ordell fu molto più difficile da rendere di quello di Jules. Più ampio, più sfaccettato.

Crowe, Brosnan, Jackson, Keanu Reeves, Kevin Costner, e l'elenco potrebbe continuare per molto ancora. C'è qualcuno di questi con cui sente di avere più feeling?
No, sono tutti attori straordinari, non saprei scegliere. Ogni volta che reinterpreto un loro ruolo, riesco a mettere qualcosa nel mio bagaglio di attore. C'è sempre da imparare, continuamente.

Togliendo Giannini e pochi altri, è sempre stato difficile per voi doppiatori crearvi una carriera parallela da attori di eguale importanza. Forse in Italia la vostra arte è ancora considerata di serie B, ad un livello inferiore?
Questo è verissimo, ma è tutta colpa di un processo di demonizzazione del doppiaggio che risale agli anni Settanta. È stato dannoso perché ha allontanato gli attori da questo mestiere, creando la sottocategoria dei doppiatori che non fanno altro se non doppiare. Questo ha impoverito entrambi i settori, non so perché sia nata questa demonizzazione, forse perché il doppiaggio era nato nel Ventennio, non saprei immaginarmi altro. Eppure doppiare non è da tutti, mentre oggi sui set, specialmente televisivi, ci vanno davvero tutti: ci sono colleghi che non potrebbero nemmeno sognare d'intraprendere la mia carriera. Io faccio un gran tifo per il ritorno degli attori al nostro mestiere, che è da attori a tutti gli effetti.

Paradossalmente, però, proprio alcuni attori sono stati molto criticati per i loro doppiaggi negli ultimi tempi, su tutti il Bane/Tom Hardy di Filippo Timi in "The Dark Knight Rises".
Questo perché bisogna andare per gradi. Non voglio riferirmi nello specifico al collega, ma non si può pensare di entrare per la prima volta in sala doppiaggio e interpretare un protagonista, o un antagonista che è ancora più difficile. Bisogna iniziare dalle piccole parti, dalle caratterizzazioni, capire prima il mestiere, e poi magari ampliare, ma in maniera graduale.

Ho l'impressione che questa stilettata ai colleghi che credono di entrare in sala doppiaggio in virtù della loro carriera precedente ce l'avesse in canna da un bel po', il buon Luca Ward. Il suo sguardo sembra affermare: «Grazie per avermelo fatto dire». Di niente. E non mi sono nemmeno fatto recitare il monologo di Ezechiele per la mia suoneria, ringraziami anche di questo. Sarebbe stato poco professionale, ma ora me ne pento...

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