Intevista a Gaja Cenciarelli, traduttrice professionista
Intevista a Gaja Cenciarelli, traduttrice professionista
Di Laura Costantini
Guardiamo i film doppiati.
Leggiamo i libri tradotti. Eppure nessuno mai dedica un pensiero a quelle
misteriose creature che ci consentono di riempirci la bocca affermando di aver
letto l’ultimo dei giallisti svedesi o il più cool degli autori giapponesi.
Ebbene, i traduttori ESISTONO. E noi ne abbiamo incontrata una. Piccola,
pallida, dalla testa in fiamme in tutti i sensi: Gaja Cenciarelli.
- Quando hai deciso di dedicarti alla
traduzione e perché?
Leggendo Stephen King e facendo sempre molta
attenzione al nome del traduttore Tullio Dobner (che invidiavo visceralmente,
perché poteva leggere in anteprima le sue storie), mi sono detta: ecco, voglio
fare la traduttrice. Poi ho cambiato idea, ho abbandonato quella strada, mi
sono dedicata ad altri lavori, sempre in ambito editoriale, ma sai com’è, no?
Talvolta è la tua strada che ti cerca, anche quando tu ti dimentichi di lei.
Dannazione. Stessero zitte le strade, a volte, farebbero meno danni. Ero in
contatto con un editore, manifestolibri, con cui dovevo pubblicare un saggio
sulla scrittrice irlandese cui ho dedicato la mia tesi. Quel libro non è
uscito, in compenso ho ricevuto la mia prima proposta di traduzione. Era il
lontano 2002. Da allora in poi non ho mai smesso. So’ una donna del Toro, ‘ndo
m’attacco mòro (non è proprio vero, per fortuna, ma la rima mi scappa sempre,
non riesco a trattenerla mai, questa rima, sarà l’età).
- Che tipo di libri traduci, ti sei
specializzata in un genere particolare?
Traduco ogni genere di libro, anche saggi. Ogni
genere. Belli e brutti, li traduciamo tutti.
- Esistono traduttori che hanno legato il loro
nome a quello di un autore (mi viene in mente Tullio Dobner con Stephen King).
Come traduttrice hai un TUO autore?
Ne ho più di uno, ma quello al quale vengo più
spesso associata è Brendan O’Carroll, irlandese, famosissimo in patria e molto
venduto anche in Italia. Un cazzone spiritosissimo, un comico, un personaggio,
un battutista, un attore, un tutto quello che volete, cui hanno chiesto in
ginocchio di scrivere un libro. E lui l’ha fatto. Quando ti chiedono qualcosa
in ginocchio, voglio dire, che fai? Rifiuti? Quando ti bussano alla porta con i
piedi perché hanno le mani occupate dai doni, pure se quelli che bussano sono
greci [questa la capiamo in tre], che fai, rifiuti? Poi gliene hanno chiesto un
altro, e lui l’ha scritto. Poi un altro ancora, e lui l’ha scritto. Poi un
altro ancora, e lui l’ha scritto. Poi un altro ancora, e lui l’ha scritto.
Capite bene che sono diventata una traduttrice famosissima [tacete, branco di
avvoltoj sarcastici che non siete altro]. Peccato che i traduttori non vengano
pagati con le royalty sulle vendite.
- Sei una scrittrice. Sei una traduttrice. Due
anime ben distinte, oppure serve una simbiosi per rendere al meglio un
linguaggio, uno stile, un’anima altri rispetto a noi?
No, quando traduco sono traduttrice a tutti gli
effetti. Ed essere traduttrice significa essere anche riscrittrice. Ma al
servizio del testo che si traduce, non della propria ispirazione.
- Ritieni esista e sia individuabile una
metodologia della traduzione, oppure ogni traduttore ha il suo modus operandi?
Se ti riferisci al metodo con cui si procede
durante la traduzione un libro credo che ciascuno abbia il proprio. Per quanto
mi riguarda, è come quando hai una ricetta segreta, come il trucco di un numero
di magia, non lo dirò mai.
- Perché in un paese che legge soprattutto
narrativa straniera, nessuno mai ricorda chi ha tradotto cosa?
Già. Perché? Perché gli addetti ai lavori non
ricordano mai il nome del traduttore nelle recensioni, o alla radio, o alla
televisione – mi riferisco ai pochi programmi ancora dedicati ai libri. Che, di
conseguenza, si traducono da soli. O meglio, quando la traduzione è sciatta il
traduttore esiste, quando lo stile è brillante, e nella recensione si lascia
spazio anche a virgolettati, il libro si è autotradotto oppure è stato
l’autore, magari di nazionalità azerbaigiana, a scriverselo direttamente nella
sua madrelingua *e* in italiano. Del resto si sa, gli scrittori sono tutti
poliglotti. Tutti. Tu vai da un azerbaigiano e gli parli in italiano e quello
ti recita la Divina Commedia. L’editore va dall’autore, gli fa il contratto e,
per contratto, l’autore deve riscrivere il testo [giammai usare il verbo
tradurre, giammai!] in, che ne so, una media di altre cinque lingue. E lo so.
Sono scoperte che traumatizzano.
- Che rapporto esiste tra gli editori, gli
autori e i traduttori, posto che esista?
I rapporti tra editori e traduttori sono di
natura professionale.
Avremmo un libro da tradurre, ci fai una prova?
Occhei.
La prova è andata bene, ti mandiamo il
contratto, la consegna è per il giorno X.
Con gli editori con cui il rapporto è
consolidato, spesso la prova non è necessaria.
Tra autore e traduttore può esistere certamente
un rapporto. Ad esempio, tramite la casa editrice il traduttore si può mettere
in contatto con l’autore per chiarirsi alcuni punti complicati o ambigui.
Certo, se gli chiedi: senti, ma son significa figlio o sole?, puoi correre il
rischio di essere sent to do in the ass.
- Come si vive di traduzione letteraria?
Si sopravvive. Pur traducendo molto, senza
pause, né fine settimana, né ferie estive, si sopravvive.
Però che sopravvivenza, ragazzi (disse lei, che
ancora, malgrado tutto, si sentiva una privilegiata a fare questo mestiere.
Some things never change. Poi dici che una si scava la fossa con le sue mani).
- Esiste un albo dei traduttori letterari
professionisti? Oppure traduttore ci si improvvisa tra un esame e l’altro
all’università?
No, non esiste un albo, ma esiste un sindacato
(sempre ‘ste strade di mezzo).
E no, traduttori non ci si improvvisa, come non
si dovrebbe improvvisare in nessun altro ambito della vita professionale o
creativa, traduttori si diventa. La traduzione è uno dei mestieri in cui, più
che in ogni altro settore, l’improvvisazione è ridicola e irripetibile (nel
senso che quasi sempre non ti danno una seconda opportunità per dimostrare il
contrario. La traduzione è Paganini: non ripete. Per quanto, nel senso di
pagamento… ma lasciamo stare).
- L’opera da te tradotta che hai amato di più
in assoluto.
Ce ne sono molte, anche se sono una piccola
percentuale rispetto a quelle che ho tradotto. Soprattutto negli ultimi tempi
sono stata particolarmente fortunata:
«L’ultima volta», Desmond Hogan, Playground (un
capolavoro);
«Sick City», Tony O’Neill, Playground;
«Guardami», di Jennifer Egan, una delle più
grandi scrittrici contemporanee, pubblicato da Minimum Fax, di cui però non ho
curato la traduzione (che è di Martina Testa e Matteo Colombo), bensì la
revisione.
- I tempi, i modi e le scelte per le opere da
tradurre rincorrono quelli del marketing?
Sì, credo di sì, ma non sempre, e non per tutti
gli editori.
- Hai mai rifiutato di tradurre un libro perché
lo trovavi di scarsa qualità? Un traduttore professionista con un nome ormai
noto agli addetti ai lavori ha un margine di scelta? Avresti tradotto la saga
di Twilight o le 50 sfumature?
I traduttori noti, che si possono permettere di
scegliere le opere, sono pochi, ma ci sono. Inoltre, spesso, non fanno solo
quello. Ossia, non sopravvivono solo di traduzione editoriale. Del resto, anche
i meno noti talvolta non fanno solo quello. Insegnano, lavorano in qualche
redazione.
Per quanto mi riguarda, io che sopravvivo solo
di traduzione editoriale, avrei sicuramente tradotto Twilight o le Cinquanta
Sfumature di Polvere sei e Polvere ritornerai [speriamo presto], il lavoro è
lavoro, e più ce n’è, meglio è. Noi traduttori paghiamo le bollette come tutti
gli altri, noi traduttori non siamo choosy, noi. Anzi, se gli editori volessero
pagarci puntualmente, così come puntualmente noi consegniamo le nostre
traduzioni. Grazie, eh.
- Definisci, in poche parole, cosa significa
tradurre un’opera. Il traduttore è uno strumento, un varco oppure un
ri-creatore?
Il traduttore è una figura mitologica, metà
umano, metà computer. Non è ancora ben chiaro se la metà elettronica sia quella
superiore o quella inferiore. In effetti si scambiano di posto a seconda delle
necessità, delle esigenze – come dire – dei bisogni.
- Quanto è difficile, se lo è, per una
scrittrice quale sei resistere alla tentazione di ri-scrivere?
Quando traduco, io sono una traduttrice e come
tale mi comporto.
- Parlaci del libro che stai traducendo adesso.
Non so se sia il caso di parlare in pubblico
dei libri che sto traducendo, ho sempre avuto molti scrupoli a farlo. In un
certo senso, forse scioccamente, mi sento vincolata alla riservatezza. Posso
solo dire che mi sta coinvolgendo molto.
- Parlaci del tuo prossimo libro, quello che
devi solo tradurre dal tuo cuore a quello del lettore.
Grazie, ma questa è un’intervista sulla
traduzione. Preferisco dedicare tutto lo spazio che mi concedi a una
professione fondamentale e fondamentalmente sconosciuta. Di scrittura si parla
ovunque e spesso a sproposito (e comunque non avrei detto niente dei miei
futuri libri, soprattutto il nome del futuro editore. Ma nemmeno a mio padre, a
mio cugino, alla mia gatta. Errare è umano, ma perseverare sarebbe diabolico ed
è da un bel pezzo, ormai, che sulla mia candida fronte non compare più la
scritta “Gioconda” ). Anzi, ti ringrazio molto di avermi concesso questo
spazio, è un angolo in più, un passo in più per tutti i traduttori.
Grazie
A te, cara Laura.
fonte: http://it.ibtimes.com
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