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Georgian Alphabet

Georgian (ႵႠႰႧႳႪႨ ႤႬႠ / ⴕⴀⴐⴇⴓⴊⴈ ⴄⴌⴀ / ქართული ენა)

Georgian is a South Caucasian or Kartvelian language spoken by about 4.1 million people mainly in Georgia, and also in Russia, Ukraine, Turkey, Azerbaijan and Iran.
Georgian is related to Mingrelian (მარგალური ნინა), Laz (ლაზური ნენა), and Svan (ლუშნუ ნინ), all of which are spoken mainly in Georgia and are written with the Georgian (Mkhedruli) alphabet.
Georgian is thought to share a common ancestral language with the other South Caucasian languages. Svan is believed to have split from this language during the 2nd millenium BC, and the other languages split up around 1,000 years later.

Written Georgian

The Georgian language first appeared in writing in about 430 AD in an inscription in a church in Palestine in an alphabet known as Asomtavruli. Before then the main written language used in Georgia was a form of Aramaic known as Armazuli (არმაზული დამწერლობა). Two other alphabets have been used to write Georgian: Nushkhuri and Mkhedruli, which is the alphabet currently used.

Asomtavruli (ႠႱႭႫႧႠႥႰႳႺႠ)

The Georgian language first appeared in writing in about 430 AD in an inscription in a church in Palestine. At that time it was written with an alphabet known as Asomtavruli (ႠႱႭႫႧႠႥႰႳႺႠ - "capital letters") or Mrglovani (ႫႰႢႥႪႭႥႠႬႨ - "rounded"), which was used until the 9th century. Asomtavruli was probably modelled on the Greek alphabet, though nobody knows who was responsible for this. Armenian scholars believe that Mesrop Mashtots' (Մեսրոպ Մաշտոց), an Armenian missionary, created Asomtavruli, while Georgian scholars believe that King Pharnavaz I (ფარნავაზი) of Kartli (Iberia) did so.
Georgian Asomtavruli (ႠႱႭႫႧႠႥႰႳႺႠ) alphabet

Nuskhuri (ⴌⴓⴑⴞⴓⴐⴈ)

During the 9th century, Asomtavruli was gradually replaced by a more angular alphabet known as Nuskhuri ("minuscule, lowercase"), which was used until the 11th century.
Georgian Nuskhuri (ⴌⴓⴑⴞⴓⴐⴈ) alphabet

Mkhedruli (მხედრული)

The Mkhedruli alphabet developed from Nuskhuri between the 11th and 13th centuries. The name Mkhedruli comes from the word mkhedari which means 'of horseman'.
At first Mkhedruli was used only for secular writing, while for religious writings a mixture of the two older alphabets was used. Eventually Nuskhuri became the main alphabet for religious texts and Asomtavruli was used only for titles and for the first letters of sentences. This system of mixing the two alphabets was known as khucesi (priest) writing.
Eventually the two older alphabets fell out of use and Mkhedruli became the sole alphabet used to write Georgian. However, in the writings of a linguist called Akaki Shanidze (1887-1987) and in works written in his honour, letters from the Asomtavruli alphabet are used to mark proper names and the beginning of sentences. Shanidze's attempt to popularise such usage met with little success.
The first printed material in the Mkhedruli language, a Georgian-Italian dictionary, was published in 1629 in Rome. Since then the alphabet has changed very little, though a few letters were added by Anton I in the 18th century, and 5 letters were dropped in the 1860s when Ilia Chavchavadze introduced a number of reforms.

Mkhedruli alphabet (მხედრული)

Georgian Mkhedruli alphabet

Notes

  • The letters in red are no longer used.
  • The names of the letters in the Georgian alphabet are the formal, traditional names. The letters names in the IPA are the usual way to refer to them.
  • The letters used to have the numerical values shown.

Georgian pronunciation

Georgian pronunciation
Information about the Georgian alphabet from Konstantin Gugeshashvili

Chart showing the three Georgian alphabets together

The top row of letters on each line is in the Asomtavruli alphabet, the second row is in theNuskhuri alphabet, and third row is in the Mkhedruli alphabet.
Georgian Asomtavruli, Nuskhuri and Mkhedruli alphabets

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Sample text in Georgian in the Asomtavruli alphabet

ႷႥႤႪႠ ႠႣႠႫႨႠႬႨ ႨႡႠႣႤႡႠ ႧႠႥႨႱႳႴႠႪႨ ႣႠ ႧႠႬႠႱႼႭႰႨ ႧႠႥႨႱႨ ႶႨႰႱႤႡႨႧႠ ႣႠ ႳႴႪႤႡႤႡႨႧ. ႫႠႧ ႫႨႬႨႽႤႡႳႪႨ ႠႵႥႧ ႢႭႬႤႡႠ ႣႠ ႱႨႬႣႨႱႨ ႣႠ ႤႰႧႫႠႬႤႧႨႱ ႫႨႫႠႰႧ ႳႬႣႠ ႨႵႺႤႭႣႬႤႬ ძႫႭႡႨႱ ႱႳႪႨႱႩႥႤႧႤႡႨႧ.

Sample text in Georgian in the Nuskhuri alphabet

ⴗⴅⴄⴊⴀ ⴀⴃⴀⴋⴈⴀⴌⴈ ⴈⴁⴀⴃⴄⴁⴀ ⴇⴀⴅⴈⴑⴓⴔⴀⴊⴈ ⴃⴀ ⴇⴀⴌⴀⴑⴜⴍⴐⴈ ⴇⴀⴅⴈⴑⴈ ⴖⴈⴐⴑⴄⴁⴈⴇⴀ ⴃⴀ ⴓⴔⴊⴄⴁⴄⴁⴈⴇ. ⴋⴀⴇ ⴋⴈⴌⴈⴝⴄⴁⴓⴊⴈ ⴀⴕⴅⴇ ⴂⴍⴌⴄⴁⴀ ⴃⴀ ⴑⴈⴌⴃⴈⴑⴈ ⴃⴀ ⴄⴐⴇⴋⴀⴌⴄⴇⴈⴑ ⴋⴈⴋⴀⴐⴇ ⴓⴌⴃⴀ ⴈⴕⴚⴄⴍⴃⴌⴄⴌ ⴛⴋⴍⴁⴈⴑ ⴑⴓⴊⴈⴑⴉⴅⴄⴇⴄⴁⴈⴇ.

Sample text in Georgian in the Mkhedruli alphabet

ყველა ადამიანი იბადება თავისუფალი და თანასწორი თავისი ღირსებითა და უფლებებით. მათ მინიჭებული აქვთ გონება და სინდისი და ერთმანეთის მიმართ უნდა იქცეოდნენ ძმობის სულისკვეთებით.

Transliteration

Qvela adamiani ibadeba tavisupali da tanasts'ori tavisi ghirsebita da uplebebit. Mat minich'ebuli akvt goneba da sindisi da ertmanetis mimart unda iktseodnen dzmobis sulisk'vetebit.

Transliteration

All human beings are born free and equal in dignity and rights. They are endowed with reason and conscience and should act towards one another in a spirit of brotherhood. 

(Article 1 of the Universal Declaration of Human Rights)
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I traduttori, questi invisibili

I traduttori, questi invisibili
Paghe misere, ritmi di lavoro stressanti e nessuna tutela. Il ritratto impietoso del traduttore italiano cui recentemente ha dato un importante contributo di analisi e dati una ricerca realizzata dall’Ires Cgil dell’Emilia Romagna DI SARA PICARDO
 di Sara Picardo


Mal pagato, poco riconosciuto e plurititolato, con tanta passione per le parole e poca speranza per il futuro. Questo il ritratto impietoso del traduttore italiano cui recentemente ha dato un importante contributo di analisi e dati una ricerca realizzata dall’Ires Cgil dell’Emilia Romagna (Dalla parte dei traduttori) in collaborazione con Slc Cgil e Strade, il giovane sindacato dei traduttori. Un nome, Strade, scelto non casualmente: fotografa in pieno, infatti, il lavoro dei propri iscritti: percorrere quotidianamente le possibili “strade” che la traduzione di un testo può imboccare, scegliendo quella più adatta al messaggio che veicola e al suo intento. Non senza difficoltà però: non solo di tipo lessicale o letterario, ma anche contrattuali ed economiche.


Anche per questo a gennaio del 2012 il neonato sindacato ha siglato un protocollo di intesa con l’Slc Cgil, il sindacato dei lavoratori della comunicazione, dalla cui collaborazione è nata la ricerca citata. Alcuni dati, tra tutti: il 55% dei traduttori ha meno di 39 anni e quasi il 60% guadagna meno di 15 mila l’anno. Lordi, of course. Le donne superano l’80% e guadagnano in media il 23.9% in meno dei colleghi uomini. Per questo oltre la metà di esse dichiara di svolgere almeno un altro lavoro e, sempre per rimanere nella casistica, ben l’84% non vede prospettive di miglioramento, anche se oltre il 90% ha un titolo superiore alla laurea. Senza parlare dei ritmi di lavoro serrati e della criticità dei contratti: previsioni che non rispettano la legge, casi estremi di cessione definitiva dei diritti d’autore in cambio di un compenso forfettario, finti rapporti di collaborazione occasionale (26%), co.co.pro. (13,5%), collaborazioni con partita Iva. 



“Amo il mio lavoro”
Quello che i dati non dicono, però, lo spiega Florinda Rinaldini, che ha realizzato la ricerca per l’Ires Cgil: “Mi hanno colpito molto le parole dei lavoratori. Tra quelle più usate nei questionari ricorre spesso l’espressione “amo il mio lavoro”, “adoro quello che faccio.” Accanto, però, si manifesta una generale consapevolezza delle scarse sicurezze, garanzie e tutele che lo contraddistinguono. Ricordo quanto scritto da una giovane donna di 31 anni di Catania: ‘Il mio lavoro è anche quello del mio fidanzato. Mi piace molto, ma quello che guadagniamo entrambi (considerando che ci si porta sempre del lavoro a casa e spesso i weekend si passano al computer, notti in bianco comprese) non riesce a giustificare la fatica, la stanchezza fisica, la perdita del tempo libero, la difficoltà di concedersi una vera pausa e l’impossibilità di pensare (soltanto pensare) di poter prendere insieme una casa. Mi piacerebbe che questo lavoro non richiedesse il nostro sacrificio, ma al contrario ci permettesse di diventare grandi con dignità’”.



“Per questo, partendo dalla difficile condizione dei traduttori, che purtroppo non è un caso isolato nel mondo dell’editoria e dell’emittenza, abbiamo stabilito con Strade una convenzione che punta da un lato alla tutela del lavoro e dall’altro a un ragionamento sulle politiche sociali che coinvolga l’insieme delle professionalità direttamente connesse alla qualità del prodotto che, se non tutelate sotto ogni punto di vista (previdenziale, assistenziale ecc.) ed esercitate con costanza, rischiano di perdersi”, spiega Massimo Cestaro, segretario generale Slc Cgil. Molte donne infatti, dopo i 40 anni o alla prima gravidanza, sono costrette ad abbandonare un lavoro in cui hanno investito tanto ma che non consente loro di vivere dignitosamente. “Bisogna sempre tener presente – continua il sindacalista – che qui non parliamo solo di posti di lavoro, ma di una ricchezza diffusa: i libri, i quotidiani, le trasmissioni televisive, sono materiale sensibile, non semplici prodotti, e contribuiscono a formare i capisaldi di un paese democratico. Quando un traduttore abbandona il suo lavoro perché non ce la fa più è come quando chiude un teatro: si perde un mondo intero di cultura e professionalità che difficilmente si produrrà altrove”. 



“Un traduttore, ri-scrivendo un romanzo, un saggio, una poesia o un’opera teatrale, produce un’opera d’ingegno originale soggetta a diritto d’autore, anche se questo non sempre gli viene riconosciuto”, afferma Daniele Petruccioli, traduttore dal portoghese, francese e inglese, amante di filastrocche e giochi di parole, nonché segretario di Strade. Anzi, tanto più il suo lavoro è efficace e ben fatto, tanto meno sembra risaltare agli occhi del lettore e della critica, così pronta invece a sottolineare gli errori. “In soldoni – ci spiega Petruccioli – i traduttori sono un po’ come dei bravi strumentisti. Senza chi suona il pianoforte o il sax, in pochi potrebbero godersi una sonata o una partitura jazz. Lo stesso vale per un testo creativo in lingua straniera: senza chi lo ‘suona’ per noi in italiano, ben pochi potrebbero godersi Moby Dick, L’idiota, Il rosso e il nero o La montagna incantata (anzi, La montagna magica, come ha voluto Renata Colorni, che ha da poco ritradotto questo classico). Stesso discorso vale anche per lo slogan dell’ultimo prodotto che tutti vogliono acquistare perché ‘suona tanto bene’, il saggio che fa gridare il mondo al genio o la biografia del tennista famoso ‘così ben scritta’. In realtà, in ognuno di questi casi citati la lingua ricreata è farina del sacco di uno o più traduttori editoriali”. 




Un lavoro di altissima qualità, dunque, che purtroppo però è sempre più spesso costretto a svolgersi a ritmi serrati, giocando al massimo ribasso e senza tutela: i compensi di un traduttore variano in modo estremo, dai 9 ai 20 euro lordi a cartella. Non è così ovunque: se in Italia un traduttore cede il proprio diritto d’autore in media per 12-15 euro lordi e spesso rinuncia alle royalty sulle vendite, un francese, un tedesco o un inglese guadagnano dai 30 ai 40 euro a cartella e mantengono una percentuale di diritti sul venduto che va dall’1,5 al 2%. In Italia tutto è più difficile. “Spesso bisogna contrattare con l’editore sul compenso o sui tempi di consegna – sottolinea Manuela Francescon, giovane traduttrice dal tedesco e dall’inglese, con una lunga esperienza in passato in diversi ambiti della produzione letteraria – ed è sempre più difficile farsi ascoltare, visto che molti si improvvisano traduttori senza una formazione specifica o esperienza. Per questo servirebbe introdurre un contratto standard, con condizioni eque e concordate tra le parti, e che venisse applicato poi da tutti gli editori. Si parla di traduzione solo quando si prende una cantonata, ma dietro ogni libro ci sono passaggi importanti che non devono venir trascurati”.


Per spiegare l’importanza di questo lavoro bisogna tornare alla metafora della musica: “Pensate a una sonata di Beethoven suonata da un musicista che non abbia il tempo per prepararsi, un pianoforte su cui esercitarsi, la sicurezza di suonare proprio quel giorno lì e non una settimana prima o una dopo, che non possa riascoltare quello che ha fatto, sia pagato poco e male e spesso in ritardo: secondo voi come risulterebbe l’esecuzione in queste condizioni?”, sottolinea Petruccioli. Per questo uno degli obiettivi di Strade è chiedere ai lettori di pretendere di più, di cominciare a giudicare i libri anche per come sono stati tradotti, e di frasi sentire dagli editori quando la traduzione non sembra loro all'altezza. 



Gli invisibili della scrittura 
È chiaro, dunque, come “queste figure, condannate all’invisibilità quasi per definizione, abbiano un enorme bisogno di potersi rivolgere a un’associazione che le tuteli e le aiuti a fare rete – racconta il segretario di Strade –. Fino a una decina di anni fa i corsi di laurea in traduzione quasi non esistevano. Si è sempre pensato che bastasse sapere un po’ di una lingua e amare vagamente la lettura per poter fare questo lavoro, come se fosse un’operazione meccanica o un hobby per ricche signore annoiate che avevano vissuto all’estero. Solo da relativamente poco tempo anche da noi si comincia a dare il giusto peso a un mestiere che richiede non soltanto un’alta formazione, ma anche un’estrema dose di sensibilità, fiuto e capacità creativa”. 



E se soltanto da poco i traduttori italiani hanno cominciato a pretendere che il valore del loro lavoro sia riconosciuto a tutti i livelli in Italia resta ancora molto da fare: da un ragionamento sui contratti che parta dal diritto d’autore (un servizio di consulenza legale è disponibile scrivendo a contratti@traduttoristrade.it), fino all’equo compenso; da un adeguato sostegno istituzionale (anche sotto forma di incentivi economici ai traduttori, come avviene in tutti i maggiori paesi europei) all’ottenimento di tempi di lavoro meno massacranti, per arrivare alle normali tutele, come maternità e malattia, che per il momento non esistono. Questi gli obiettivi di Strade, e l’impegno per raggiungerli anche se ancora sotto traccia, è cominciato almeno dieci anni prima. “Eravamo stanchi di sentirci soli – racconta oggi Petruccioli –. Per questo abbiamo cominciato a cercarci su internet, nei forum, alle fiere del libro, nelle manifestazioni culturali, e abbiamo iniziato a parlare tra di noi. Di come lavoravamo, e di come ci facevano lavorare. Di come migliorare il nostro lavoro e le condizioni in cui esso si svolge”. 



Da allora di strada, appunto, ne è stata fatta: Strade, oltre ad aver firmato un protocollo d’intesa con Slc, è membro del Ceatl (il Conseil européen des associations des traducteurs littéraires) e fa parte della commissione Mibac che assegna i premi nazionali per la traduzione. Ha sottoscritto per i propri soci ordinari e associati una convenzione di assistenza sanitaria integrativa con la società di mutuo soccorso Insieme salute (la mutua Elisabetta Sandri). Ha una propria rivista (http://strademagazine.it), offre consulenza legale e fiscale a iscritti ed esterni, ha stabilito una convenzione con una legale specializzata nel settore dell’editoria e del diritto d’autore ed è in contatto con diversi avvocati specializzati in varie parti d’Italia; infine, ha pubblicato un vademecum legale e fiscale e si occupa di formazione. “Un primo passo verso la visibilità è stato fatto – conclude Francescon –. Ora non resta che rimanere uniti e continuare a lottare”. In punta di penna o, meglio, di diritti e parole.

fonte: http://www.rassegna.it/
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Incidenti diplomatici che non lo erano

Incidenti diplomatici che non lo erano

Come quello tra Cina e Giappone nato dalle parole di Shinzo Abe a Davos, 10 giorni fa: ma è stato solo un errore di traduzione, dice il governo giapponese


Lunedì il governo giapponese ha fatto sapere di avere richiamato formalmente la società privata di interpreti che si è occupata della traduzione delle discusse parole del primo ministro giapponese Shinzo Abe durante il World Economic Forum di Davos, in Svizzera, il 23 gennaio scorso. Secondo il governo, infatti, l’interprete avrebbe tradotto male la risposta di Abe a una domanda fatta da un giornalista del Financial Times, che aveva chiesto al primo ministro giapponese se fosse “concepibile” una guerra tra Cina e Giappone. Abe, aveva scritto la stampa internazionale, aveva risposto paragonando i rapporti sino-giapponesi con quelli tra Germania e Regno Unito prima del 1914, cioè prima dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, riferendosi al fatto che l’esistenza di forti relazioni commerciali bilaterali non fosse stata in grado di evitare il conflitto.
La trascrizione in giapponese del discorso di Abe non contiene però direttamente questa affermazione. Secondo una traduzione di AFP fornita dalla segreteria di gabinetto, Abe ha detto: «Quest’anno è il 100esimo anniversario dell’inizio della Prima Guerra Mondiale. A quel tempo, Regno Unito e Germania avevano dei rapporti economici molto forti, ma entrarono comunque in guerra. Cito questo fatto come commento aggiuntivo. Se qualcosa di simile a quello che Lei suggerisce dovesse accadere, causerebbe perdite significative sia per il Giappone che per la Cina, ma provocherebbe anche danni rilevanti al resto del mondo. Noi dobbiamo garantire che questo non accada». Il riferimento ai rapporti tra Regno Unito e Germania non sarebbe stata quindi una comparazione riferita direttamente alle relazioni sino-giapponesi.
Nel 2013 il volume dei rapporti economici tra Cina e Giappone ha raggiunto i 312,5 miliardi di dollari, mentre le relazioni politiche sono state molto difficili, secondo molti osservatori le più tese degli ultimi anni. I due paesi stanno litigando da mesi sul controllo territoriale delle isole Senkaku (per i giapponesi, Diaoyutai per i cinesi), che si trovano nel Mar Cinese Orientale e sono amministrate dal Giappone ma rivendicate da Cina e Taiwan. La tensione è salita ulteriormente il 26 dicembre, quando Abe ha visitato il santuario di Yasukuni a Tokyo, luogo simbolico della storia e della cultura del paese in cui si celebrano i caduti per la patria e, tra questi, quattordici persone condannate per crimini di guerra (tra cui il comandante delle truppe giapponesi durante il massacro di Nanchino, in Cina, nell’inverno del 1937-1938, durante il quale furono violentate circa 20mila donne e uccisi circa 250mila civili cinesi).
Secondo la maggior parte degli osservatori, comunque, non c’è pericolo imminente di una guerra tra Cina e Giappone. Come sottolinea sul Wall Street Journal Joseph Nye, professore dell’Università di Harvard ed ex presidente del National Intelligence Council statunitense, il mondo è molto diverso ora e ci sono diverse condizioni che rendono la guerra tra Cina e Giappone un’eventualità molto lontana. Primo, oggi l’arma nucleare – detenuta dalla Cina e dagli Stati Uniti, che agiscono come “protettori” per il Giappone, che invece non ce l’ha – previene il conflitto. Secondo, nonostante il nazionalismo venga usato da entrambi i governi per mantenere alto il consenso interno, né in Cina né in Giappone si vorrebbe oggi sacrificare la crescita economica a causa di una crisi politica andata fuori controllo. Terzo, c’è la Corea del Nord, che molti vedono come fattore di instabilità pronto a sfruttare a suo vantaggio i disaccordi tra i paesi della regione asiatica.
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Sul tradurre in inglese l’italiano

Sul tradurre in inglese l’italiano


Un esperto traduttore americano spiega che il difficile non sono le lingue diverse: sono i mondi diversi

Antony Shugaar è un traduttore statunitense con una lunga esperienza nella traduzione di testi italiani in inglese: ha tradotto diversi libri di Primo Levi e più di recente Resistere non serve a niente di Walter Siti e Il metodo del coccodrillo di Maurizio De Giovanni. In un articolo sul New York Times ha raccontato i tempi dei suoi primi lavori da traduttore in Italia e le difficoltà e i problemi più comuni in cui si imbattono i traduttori di lingua inglese quando hanno a che fare con dei testi scritti in italiano.
All’inizio degli anni Ottanta Shugaar si trasferì a Milano e lavorò per un po’ di tempo nella rivista italiana d’arte FMR, acronimo dell’editore Franco Maria Ricci: gli uffici si trovavano all’interno del sontuoso Palazzo Visconti di Modrone, e un paio d’anni dopo l’uscita in Italia FMR cominciò a essere pubblicata anche negli Stati Uniti (con uno slogan piuttosto ambizioso, ricorda Shugaar: “la più bella rivista del mondo”, secondo una definizione che veniva da Jacqueline Kennedy, amica di Ricci).
Per la traduzione dei testi della rivista Ricci si affidò a William Weaver, uno dei più noti e apprezzati traduttori dall’italiano all’inglese, che visse a lungo in Italia e che all’epoca aveva da poco tradotto Il nome della rosa di Umberto Eco (Weaver tradusse anche Svevo, Calvino, Zavattini, Moravia, Montale e altri grandi autori della letteratura italiana). Nel suo pezzo per il New York Times Shugaar cita alcune piccole e grandi lezioni che in quegli anni apprese da Weaver, che considera uno dei suoi grandi maestri e al quale è in parte dedicato il suo ricordo (Weaver è morto il 12 novembre scorso, aveva 90 anni).
Tra i testi più lunghi e complessi mai tradotti da Weaver già all’epoca, c’era Quer pasticciaccio brutto de via Merulana di Carlo Emilio Gadda, un romanzo – uscito per il mercato statunitense nel 1965, con il titolo That Awful Mess on Via Merulana: A Novel – che alla complessità della trama univa quella della lingua utilizzata da Gadda. Shugaar chiese a Weaver come si fosse regolato con la traduzione dei numerosissimi dialetti – romano, napoletano e altri  – utilizzati da Gadda, e Weaver gli rispose: «Ah be’, li ho tolti». Che nel caso del Pasticciaccio di Gadda, scrive Shugaar, “è come tradurre Moby Dick e togliere le barche”.
Nell’introduzione all’edizione inglese del Pasticciaccio, Weaver scrisse che “tradurre il dialetto romano o veneziano di Gadda nella lingua del Mississippi o delle Isole Aran (Irlanda) sarebbe assurdo come tradurre il linguaggio della famiglia Snopes dei romanzi di Faulkner in siciliano o in gallese”. Piuttosto aveva preferito tradurre quelle parti in un inglese parlato, chiedendo esplicitamente al lettore – nell’introduzione – lo sforzo di immaginare che quelle parole fossero pronunciate dai protagonisti in uno dei tanti dialetti italiani o in un miscuglio di dialetti differenti.
Nel lavoro di un traduttore casi del genere sono molto frequenti e racchiudono una difficoltà ineliminabile, di fronte alla quale il traduttore – scrive Shugaar, commentando quella scelta di Weaver – sostanzialmente si rassegna e rinuncia, che è un po’ come “perdere un paziente”. Sebbene negli Stati Uniti sia pratica piuttosto comune tradurre, ad esempio, il dialetto siciliano nel dialetto di Brooklyn – e Shugaar cita il caso di Stephen Sartarelli, traduttore inglese dei libri di Andrea Camilleri sul commissario Montalbano – secondo Shugaar si tratta di una scelta comprensibile ma “assurda”, esattamente come la convenzione americana di dare un accento inglese ai soldati tedeschi nei film ambientati durante la seconda guerra mondiale.
Un esempio cinematografico recente di grande successo, Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino, presentava un caso ancora più complesso (ma gli spettatori italiani hanno perso anche l’accento a momenti inglese – assai rilevante nella trama – della protagonista di American Hustle). La produzione americana si trovò di fronte alla necessità di prendere una decisione riguardo alle tre lingue diverse dall’inglese parlate nel film, e anche in quel caso una sostanziale “rinuncia” finì per diventare uno dei maggiori pregi del film: le parti recitate dagli attori in francese, tedesco e italiano non furono doppiate in inglese – magari con accenti particolari, come nei casi citati da Shugaar – e nelle sale americane quelle parti furono sottotitolate.



Tornando ai libri, spessissimo è come se la traduzione richiedesse delle spiegazioni ulteriori per un lettore inglese, dice Shugaar, e fa una serie di esempi: se un autore italiano scrive di un tale che si ferma in un autogrill in autostrada, un lettore italiano immagina immediatamente di che luogo stiamo parlando – “questi piccoli negozi in stile anni Sessanta sparsi lungo l’autostrada da dove si vedono sfrecciare auto a 150 all’ora” – ma un lettore inglese lo immagina diversamente. Oppure, ancora: se un autore italiano scrive di uno che cade con “la faccia sull’asfalto” (“face-down onto the asphalt”), un lettore italiano capisce che può essere un marciapiede, e non una strada. Anche solo tradurre una scena normalissima in cui due persone entrano in un ristorante, prosegue Shugaar, presenta la difficoltà di dover tenere a mente che in Italia il più delle volte le porte degli edifici pubblici si aprono verso l’interno, non verso l’esterno come avviene negli Stati Uniti (per ragioni di sicurezza).
E poi ci sono altre difficoltà propriamente lessicali: “casa” in inglese è “house”, ma per gli italiani di solito si riferisce a un appartamento, e può essere anche un palazzo. Non solo: in Italia il primo piano di un palazzo è quello in cui ti trovi dopo aver salito una rampa di scale, mentre negli Stati Uniti quello sarebbe il “second floor” (“first floor” è piano terra). Infine ci sono dei casi paradossali – e anche vagamente comici – in cui certe espressioni suonano strane anche al traduttore: Shugaar scrive che uno dei suoi avvisi italiani preferiti – che a volte gli è capitato di trovare nei libri e di dover tradurre – è quello utilizzato dagli addetti comunali quando è in programma la pulizia stradale, per indicare il divieto di parcheggiare sia lungo le strade “sia sui marciapiedi”, da cui Shugaar deduce che in Italia i marciapiedi sono quindi considerati anche area di parcheggio per le macchine.
È per tutti questi motivi che tradurre richiede non soltanto particolare attenzione ma anche parecchio tempo e indagini “sul territorio”, spiega Shugaar: in una giornata di lavoro intensa, andando veloce, si riescono a tradurre 10-15 pagine di un libro. Ma tradurre è come “camminare su un’autostrada, laddove leggere significa guidare a cento all’ora”, e a volte devi fermarti e fare un giro nel panorama intorno.
Shugaar – per capirci sulle difficoltà del tradurre in genere – conclude il pezzo utilizzando un gioco di parole che esiste in inglese ma che è intraducibile in italiano e visto da qui, appunto, fa già molto meno effetto:

Spesso si parla di parole intraducibili (“untranslatable words”), ma in un certo senso non esistono parole intraducibili. Possono servire tre parole, o una frase intera, o un paragrafo aggiuntivo, ma qualsiasi parola può essere tradotta. A meno di non trasformare un libro in un’enciclopedia, però, non c’è modo di risolvere il problema più grosso: i mondi intraducibili (“untranslatable worlds”).
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RAPINA FARMACIA VIALE UNGHERIA MILANO, DRAMMA DI UN TRADUTTORE DISOCCUPATO

RAPINA FARMACIA VIALE UNGHERIA MILANO, DRAMMA DI UN TRADUTTORE DISOCCUPATO

“L’ho fatto perché non trovo lavoro e sono costretto a vivere a carico dei miei genitori”. Probabilmente il 38enne finito qualche ora fa in manette per aver rapinato una farmacia in viale Ungheria, mai avrebbe pensato, un giorno, di dover pronunciare parole tanto disperate.



TRADUTTORE DISOCCUPATO - Sposato, senza figli, e un sogno infranto nel cassetto: quello di poter lavorare, prima o poi, come traduttore.

- Da lì, quella pensata così estrema e infausta di mettersi alla prova come rapinatore. Ultima conseguenza – seppur senza giustificazione alcuna – dell’umiliazione di dover ancora contare, alla soglia dei quarant’anni, sulla misericordia di mamma e papà per poter sbarcare il lunario.

L’AZIONE: PER UNA MANCIATA DI EURO - Ma la decisione è presa e indietro non si torna. Sono le 15.55 e D.B., sciarpa e cappuccio a celare i suoi connotati e un grosso coltellaccio da cucina alla mano, si fionda nella farmacia. Lo stesso esercizio, probabilmente, di cui talvolta si era servito quando ancora viveva in zona Mecenate-Ungheria, prima che la crisi lo obbligasse a trasferirsi nell’Hinterland milanese.

- L’azione dura poco, giusto due-tre minuti di paura e il gioco è fatto.

- Il bottino, però, è di quelli magri: solo 244 euro che probabilmente non valgono il rischio.

LA FUGA E L’INSEGUIMENTO – Ma non c’è tempo da perdere in sterili elucubrazioni. Bisogna scappare. E così, il provetto rapinatore salta in auto e si dà alla fuga.

- La sorte, però, questa volta non arride al principiante. Una pattuglia di  carabinieri appostata nei paraggi lo intercetta pochi minuti dopo.

- Scatta un rocambolesco inseguimento per le vie del quartiere degno delle migliori rapine. Il 38enne le prova tutte. L’ultimo tentativo è imboccare la vicina tangenziale, dov’è sarebbe più  facile far perdere le proprie tracce.

- Ma la fuga ha i metri contati. La sua vettura viene bloccata dalla volante. I militari gli intimano di scendere dall’auto. Lui obbedisce senza opporre resistenza.

LA CONFESSIONE – “Ho fatto una cazzata”, confessa senza troppi giri di parole agli uomini dell’Arma. Un’ammissione che non lasca adito interpretazioni alcune.

- All’interno del baule i militari rinvengono anche uno zaino per la refurtiva e gli abiti usati probabilmente per travisarsi.

- Per lui scattano immediatamente le manette. I soldi vengono restituiti al farmacista.

- Un finale inglorioso per una storia di disperazione come tante, figlia dei nostri tempi, di questa società ricca di contraddizioni e, sempre più spesso, incapace di offrire soluzioni.