I traduttori, questi invisibili

I traduttori, questi invisibili
Paghe misere, ritmi di lavoro stressanti e nessuna tutela. Il ritratto impietoso del traduttore italiano cui recentemente ha dato un importante contributo di analisi e dati una ricerca realizzata dall’Ires Cgil dell’Emilia Romagna DI SARA PICARDO
 di Sara Picardo


Mal pagato, poco riconosciuto e plurititolato, con tanta passione per le parole e poca speranza per il futuro. Questo il ritratto impietoso del traduttore italiano cui recentemente ha dato un importante contributo di analisi e dati una ricerca realizzata dall’Ires Cgil dell’Emilia Romagna (Dalla parte dei traduttori) in collaborazione con Slc Cgil e Strade, il giovane sindacato dei traduttori. Un nome, Strade, scelto non casualmente: fotografa in pieno, infatti, il lavoro dei propri iscritti: percorrere quotidianamente le possibili “strade” che la traduzione di un testo può imboccare, scegliendo quella più adatta al messaggio che veicola e al suo intento. Non senza difficoltà però: non solo di tipo lessicale o letterario, ma anche contrattuali ed economiche.


Anche per questo a gennaio del 2012 il neonato sindacato ha siglato un protocollo di intesa con l’Slc Cgil, il sindacato dei lavoratori della comunicazione, dalla cui collaborazione è nata la ricerca citata. Alcuni dati, tra tutti: il 55% dei traduttori ha meno di 39 anni e quasi il 60% guadagna meno di 15 mila l’anno. Lordi, of course. Le donne superano l’80% e guadagnano in media il 23.9% in meno dei colleghi uomini. Per questo oltre la metà di esse dichiara di svolgere almeno un altro lavoro e, sempre per rimanere nella casistica, ben l’84% non vede prospettive di miglioramento, anche se oltre il 90% ha un titolo superiore alla laurea. Senza parlare dei ritmi di lavoro serrati e della criticità dei contratti: previsioni che non rispettano la legge, casi estremi di cessione definitiva dei diritti d’autore in cambio di un compenso forfettario, finti rapporti di collaborazione occasionale (26%), co.co.pro. (13,5%), collaborazioni con partita Iva. 



“Amo il mio lavoro”
Quello che i dati non dicono, però, lo spiega Florinda Rinaldini, che ha realizzato la ricerca per l’Ires Cgil: “Mi hanno colpito molto le parole dei lavoratori. Tra quelle più usate nei questionari ricorre spesso l’espressione “amo il mio lavoro”, “adoro quello che faccio.” Accanto, però, si manifesta una generale consapevolezza delle scarse sicurezze, garanzie e tutele che lo contraddistinguono. Ricordo quanto scritto da una giovane donna di 31 anni di Catania: ‘Il mio lavoro è anche quello del mio fidanzato. Mi piace molto, ma quello che guadagniamo entrambi (considerando che ci si porta sempre del lavoro a casa e spesso i weekend si passano al computer, notti in bianco comprese) non riesce a giustificare la fatica, la stanchezza fisica, la perdita del tempo libero, la difficoltà di concedersi una vera pausa e l’impossibilità di pensare (soltanto pensare) di poter prendere insieme una casa. Mi piacerebbe che questo lavoro non richiedesse il nostro sacrificio, ma al contrario ci permettesse di diventare grandi con dignità’”.



“Per questo, partendo dalla difficile condizione dei traduttori, che purtroppo non è un caso isolato nel mondo dell’editoria e dell’emittenza, abbiamo stabilito con Strade una convenzione che punta da un lato alla tutela del lavoro e dall’altro a un ragionamento sulle politiche sociali che coinvolga l’insieme delle professionalità direttamente connesse alla qualità del prodotto che, se non tutelate sotto ogni punto di vista (previdenziale, assistenziale ecc.) ed esercitate con costanza, rischiano di perdersi”, spiega Massimo Cestaro, segretario generale Slc Cgil. Molte donne infatti, dopo i 40 anni o alla prima gravidanza, sono costrette ad abbandonare un lavoro in cui hanno investito tanto ma che non consente loro di vivere dignitosamente. “Bisogna sempre tener presente – continua il sindacalista – che qui non parliamo solo di posti di lavoro, ma di una ricchezza diffusa: i libri, i quotidiani, le trasmissioni televisive, sono materiale sensibile, non semplici prodotti, e contribuiscono a formare i capisaldi di un paese democratico. Quando un traduttore abbandona il suo lavoro perché non ce la fa più è come quando chiude un teatro: si perde un mondo intero di cultura e professionalità che difficilmente si produrrà altrove”. 



“Un traduttore, ri-scrivendo un romanzo, un saggio, una poesia o un’opera teatrale, produce un’opera d’ingegno originale soggetta a diritto d’autore, anche se questo non sempre gli viene riconosciuto”, afferma Daniele Petruccioli, traduttore dal portoghese, francese e inglese, amante di filastrocche e giochi di parole, nonché segretario di Strade. Anzi, tanto più il suo lavoro è efficace e ben fatto, tanto meno sembra risaltare agli occhi del lettore e della critica, così pronta invece a sottolineare gli errori. “In soldoni – ci spiega Petruccioli – i traduttori sono un po’ come dei bravi strumentisti. Senza chi suona il pianoforte o il sax, in pochi potrebbero godersi una sonata o una partitura jazz. Lo stesso vale per un testo creativo in lingua straniera: senza chi lo ‘suona’ per noi in italiano, ben pochi potrebbero godersi Moby Dick, L’idiota, Il rosso e il nero o La montagna incantata (anzi, La montagna magica, come ha voluto Renata Colorni, che ha da poco ritradotto questo classico). Stesso discorso vale anche per lo slogan dell’ultimo prodotto che tutti vogliono acquistare perché ‘suona tanto bene’, il saggio che fa gridare il mondo al genio o la biografia del tennista famoso ‘così ben scritta’. In realtà, in ognuno di questi casi citati la lingua ricreata è farina del sacco di uno o più traduttori editoriali”. 




Un lavoro di altissima qualità, dunque, che purtroppo però è sempre più spesso costretto a svolgersi a ritmi serrati, giocando al massimo ribasso e senza tutela: i compensi di un traduttore variano in modo estremo, dai 9 ai 20 euro lordi a cartella. Non è così ovunque: se in Italia un traduttore cede il proprio diritto d’autore in media per 12-15 euro lordi e spesso rinuncia alle royalty sulle vendite, un francese, un tedesco o un inglese guadagnano dai 30 ai 40 euro a cartella e mantengono una percentuale di diritti sul venduto che va dall’1,5 al 2%. In Italia tutto è più difficile. “Spesso bisogna contrattare con l’editore sul compenso o sui tempi di consegna – sottolinea Manuela Francescon, giovane traduttrice dal tedesco e dall’inglese, con una lunga esperienza in passato in diversi ambiti della produzione letteraria – ed è sempre più difficile farsi ascoltare, visto che molti si improvvisano traduttori senza una formazione specifica o esperienza. Per questo servirebbe introdurre un contratto standard, con condizioni eque e concordate tra le parti, e che venisse applicato poi da tutti gli editori. Si parla di traduzione solo quando si prende una cantonata, ma dietro ogni libro ci sono passaggi importanti che non devono venir trascurati”.


Per spiegare l’importanza di questo lavoro bisogna tornare alla metafora della musica: “Pensate a una sonata di Beethoven suonata da un musicista che non abbia il tempo per prepararsi, un pianoforte su cui esercitarsi, la sicurezza di suonare proprio quel giorno lì e non una settimana prima o una dopo, che non possa riascoltare quello che ha fatto, sia pagato poco e male e spesso in ritardo: secondo voi come risulterebbe l’esecuzione in queste condizioni?”, sottolinea Petruccioli. Per questo uno degli obiettivi di Strade è chiedere ai lettori di pretendere di più, di cominciare a giudicare i libri anche per come sono stati tradotti, e di frasi sentire dagli editori quando la traduzione non sembra loro all'altezza. 



Gli invisibili della scrittura 
È chiaro, dunque, come “queste figure, condannate all’invisibilità quasi per definizione, abbiano un enorme bisogno di potersi rivolgere a un’associazione che le tuteli e le aiuti a fare rete – racconta il segretario di Strade –. Fino a una decina di anni fa i corsi di laurea in traduzione quasi non esistevano. Si è sempre pensato che bastasse sapere un po’ di una lingua e amare vagamente la lettura per poter fare questo lavoro, come se fosse un’operazione meccanica o un hobby per ricche signore annoiate che avevano vissuto all’estero. Solo da relativamente poco tempo anche da noi si comincia a dare il giusto peso a un mestiere che richiede non soltanto un’alta formazione, ma anche un’estrema dose di sensibilità, fiuto e capacità creativa”. 



E se soltanto da poco i traduttori italiani hanno cominciato a pretendere che il valore del loro lavoro sia riconosciuto a tutti i livelli in Italia resta ancora molto da fare: da un ragionamento sui contratti che parta dal diritto d’autore (un servizio di consulenza legale è disponibile scrivendo a contratti@traduttoristrade.it), fino all’equo compenso; da un adeguato sostegno istituzionale (anche sotto forma di incentivi economici ai traduttori, come avviene in tutti i maggiori paesi europei) all’ottenimento di tempi di lavoro meno massacranti, per arrivare alle normali tutele, come maternità e malattia, che per il momento non esistono. Questi gli obiettivi di Strade, e l’impegno per raggiungerli anche se ancora sotto traccia, è cominciato almeno dieci anni prima. “Eravamo stanchi di sentirci soli – racconta oggi Petruccioli –. Per questo abbiamo cominciato a cercarci su internet, nei forum, alle fiere del libro, nelle manifestazioni culturali, e abbiamo iniziato a parlare tra di noi. Di come lavoravamo, e di come ci facevano lavorare. Di come migliorare il nostro lavoro e le condizioni in cui esso si svolge”. 



Da allora di strada, appunto, ne è stata fatta: Strade, oltre ad aver firmato un protocollo d’intesa con Slc, è membro del Ceatl (il Conseil européen des associations des traducteurs littéraires) e fa parte della commissione Mibac che assegna i premi nazionali per la traduzione. Ha sottoscritto per i propri soci ordinari e associati una convenzione di assistenza sanitaria integrativa con la società di mutuo soccorso Insieme salute (la mutua Elisabetta Sandri). Ha una propria rivista (http://strademagazine.it), offre consulenza legale e fiscale a iscritti ed esterni, ha stabilito una convenzione con una legale specializzata nel settore dell’editoria e del diritto d’autore ed è in contatto con diversi avvocati specializzati in varie parti d’Italia; infine, ha pubblicato un vademecum legale e fiscale e si occupa di formazione. “Un primo passo verso la visibilità è stato fatto – conclude Francescon –. Ora non resta che rimanere uniti e continuare a lottare”. In punta di penna o, meglio, di diritti e parole.

fonte: http://www.rassegna.it/

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