Post in translation: Ismail Kadare

Post in translation: Ismail Kadare

A due o a quattro mani: lo strano caso dei traduttori di Ismail Kadare
di Francesca Spinelli

Ismail Kadare
Una versione più lunga di questo articolo è uscita nel volume Il confine liquido. Rapporti letterari e interculturali fra Italia e Albania, a cura di Daniele Comberiati e Emma Bond -Besa 2013. Il libro verrà presentato a Tirana il 23 gennaio 2014 nell’ambito del convegno dal titolo “Kujtesa, identiteti dhe integrimi. Letteratura albanese migrante in lingua italiana”.
Per indicare quei testi tradotti una prima volta e quindi ritradotti in una terza lingua, il critico Michael Orthofer ha preso in prestito dalla genealogia un’espressione poeticamente concisa: twice removed. In un articolo pubblicato nel 2003 sulla rivista online The Complete Review, Orthofer si stupisce che ancora oggi le opere di alcuni noti autori siano tradotte in inglese da traduzioni già esistenti, citando come esempi Sándor Márai, Haruki Murakami, Witold Gombrowicz e Ismail Kadare, e conclude che “senza una grande rivolta contro la traduzione di seconda mano – da parte dei lettori, dei critici, degli autori e dei traduttori stessi – è probabile che questo tipo di traduzioni continui a essere pubblicato”1.

In Italia solo una piccola parte delle opere di Ismail Kadare è stata tradotta direttamente dall’albanese. Molte sono comprese nel catalogo Longanesi, che ha comprato i diritti da Fayard, unico editore di Kadare in Francia. Le opere di Kadare, spiega Fayard sul suo sito, sono state tradotte “in una quarantina di paesi”. Sarebbe più corretto dire che in molti di quei paesi i lettori, spesso a loro insaputa, hanno a disposizione solo le traduzioni della versione francese. In Brasile, invece, le traduzioni dirette e indirette sono presenti in uguale misura. Ci sono infine paesi – tra cui Spagna, Germania e Paesi Bassi – dove i testi di Kadare sono tradotti unicamente dall’albanese. – Risalendo indietro nel tempo o esplorando i cataloghi di editori minori, è possibile scovare traduzioni dirette anche verso l’italiano o l’inglese, ma rimangono eccezioni in un quadro per lo più francocentrico.2

I traduttori di Kadare si dividono così in due categorie, a seconda che conoscano o meno l’albanese. Nel 2005 David Bellos, il principale traduttore di Kadare in inglese insieme alla francesista Barbara Bray (scomparsa nel 2010), ricordava così la scoperta dell’autore del Generale dell’armata morta: “Quando, dieci anni fa, il direttore letterario di The Harvill Press Christophe MacLehose mi chiese di tradurre Dosja H di Ismail Kadare dalla versione francese, in un primo momento esitai. Non parlavo albanese (ancora oggi conosco solo pochi elementi di questa lingua strana e difficile). E poi avevo dei principi! […] ‘Perché non fate tradurre il testo direttamente dall’albanese?’, chiesi a MacLehose. Sollevò le sue lunghe braccia al cielo. ‘Se solo sapessi...’, fu la sua misteriosa e irrefutabile risposta”.3

Il mio primo istinto, quando nel 2008 Fandango mi ha proposto di tradurre il saggio Dante, l’incontournable (in albanese Dantja i pashmangshëm) è stato di controllare l’unico testo di Kadare che avevo a casa, il romanzo breve L’aquila, tradotto da Francesco Bruno e pubblicato da Longanesi nel 2007. Unica indicazione sulla versione originale: “Traduzione dal testo francese L’Aigle”, senza che fosse precisato il nome del traduttore dall’albanese al francese. Mi è sembrato strano, come mi ha stupito che non ci fossero persone in grado di tradurre direttamente dall’albanese, ma Fandango ha insistito. Ho accettato, come Bellos, zittendo i miei scrupoli.

A parte rari e splendidi casi come quelli raccolti nella collana di Einaudi “Scrittori tradotti da scrittori”, le doppie traduzioni sono difficilmente difendibili. Fanno un torto ai lettori, spesso ignari del doppio passaggio, e sono estremamente frustranti per i traduttori, confrontati non solo al rischio di fraintendere il testo, rischio insito nell’atto stesso di tradurre, ma anche al timore di perpetuare un errore del primo traduttore. Torniamo alla “Breve storia dell’Albania con Dante Alighieri” (questo il sottotitolo) di Kadare. L’argomento imponeva la massima minuzia, ma il passaggio dal francese ha inevitabilmente amplificato difficoltà e dubbi, in parte risolti grazie all’autore della versione francese, Tedi Papavrami. Nato a Tirana nel 1971, Papavrami è noto soprattutto come violinista, ed è proprio grazie al suo talento musicale che nel 1982 si è potuto trasferire in Francia per studiare. Nel 2001, in seguito a una vicenda di cui parlerò più avanti, Fayard gli ha affidato la traduzione delle opere di Kadare.

Durante i nostri scambi Papavrami ha ammesso alcuni errori, suoi o dell’editor di Fayard, permettendomi di ripristinare il senso originario. “Mi scuso per queste imprecisioni”, ha poi scritto, “ma io stesso a tratti ho faticato a capire questo testo. Di tutti i libri di Kadare che ho tradotto, è quello che mi ha messo più in difficoltà”. Mai confessione fu raccolta con tanto sconforto.

Nel 2010 Fandango ha pubblicato un secondo testo di Kadare, Il mostro, un romanzo che intreccia diversi piani temporali giocando su parallelismi e intersezioni tra il mito della caduta di Troia e l’arroccamento dell’Albania comunista di Enver Hoxha. Ho scoperto con orrore che Papavrami non avrebbe potuto essermi d’aiuto, perché l’autore della versione francese era scomparso da qualche anno. Si chiamava Jusuf Vrioni, e la sua storia meriterebbe un libro a parte4. Morto a Parigi nel 2001, Vrioni era il doppio francese – o meglio francofono – di Kadare. Nato nel 1916 in una famiglia aristocratica albanese, aveva trascorso gran parte della giovinezza in Francia, dove suo padre era ambasciatore, e dove aveva acquisito una padronanza perfetta della lingua. Nel 1943 decise di tornare in Albania. Fu arrestato quattro anni dopo con l’accusa di essere una spia, torturato e incarcerato. Una volta liberato, nel 1959, cominciò a tradurre per guadagnarsi da vivere: traduceva in francese testi politici, tra cui le opere di Hoxha, e letterari, in particolare quelli di un giovane autore di nome Ismail Kadare.

Come racconta lo stesso Kadare in un’intervista uscita su La Matricule des Anges nel 1999, l’inizio della sua fortuna in Francia risale alla fine degli anni sessanta, quando il giornalista Pierre Paraf, in viaggio in Albania, capitò sulla versione francese del Generale dell’armata morta, tradotto da Vrioni e pubblicato tre anni prima per volere delle autorità comuniste. Paraf portò il volume in Francia e l’editore Albin Michel lo pubblicò nel 1970, senza doverne acquistare i diritti poiché l’Albania di Hoxha non aveva firmato nessun trattato sul diritto d’autore.

Per anni Vrioni, malvisto in quanto ex detenuto politico, rimase un traduttore invisibile. Il suo nome non appariva mai, e i primi lettori francesi di Ismail Kadare dovettero accontentarsi di un vago “Traduit de l’albanais”. Il riconoscimento arrivò tardi, quando Vrioni aveva più di sessant’anni, con la pubblicazione di Il ponte a tre archi e Aprile spezzato (usciti rispettivamente nel 1970 e nel 1980 in Albania, e nel 1981 in Francia). Nel 1985, per la prima volta dopo oltre quarant’anni, Vrioni poté uscire dall’Albania, e nel 1997 decise di lasciare definitivamente il paese per tornare a Parigi.

Chi l’ha conosciuto lo ricorda come un uomo la cui cultura e raffinatezza erano pari solo alla sua umiltà5. Orthofer sottolinea che le traduzioni inglesi riportano generalmente la dicitura “Translated from the French of Jusuf Vrioni”. In Italia si è a lungo ignorata questa buona abitudine, e io stessa non ho pensato a far inserire il nome di Papavrami in Dante, l’inevitabile, riparando l’errore nelle due traduzioni seguenti, Il mostro e La nicchia della vergogna. Dopo la morte di Vrioni Fayard ha chiesto a Papavrami di curare le traduzioni delle opere di Kadare.

A differenza di Vrioni e Papavrami, in grado di tradurre dalla propria lingua madre in una lingua di adozione6, molti “traduttori diretti” di Kadare hanno imparato la lingua del paese delle aquile, per motivi spesso singolari. Per il traduttore spagnolo Ramón Sánchez Lizarralde e il tedesco Joachim Röhm la spinta fu ideologica. Nel 1977, su invito del regime di Hoxha, l’allora trentenne Röhm e la moglie si trasferirono in Albania, dove vissero tre anni. Una volta tornato in Germania, Röhm diventò il principale traduttore di letteratura albanese in tedesco. Lizarralde, scomparso nel 2011 a soli sessant’anni, seguì un percorso simile. Membro del Partido comunista marxista leninista, nel 1980 andò a studiare a Tirana, dove conobbe Kadare e si laureò in Lingua albanese, prima di tornare in Spagna nel 1984.

Nei Paesi Bassi Kadare ha due traduttori albanofoni, Roel Schuyt e Jacqueline Sheji. Quest’ultima, dopo aver imparato la lingua del marito, l’artista Qenan Sheji (macedone, ma appartenente alla minoranza albanese del paese), ha tradotto diversi autori albanesi. Roel Schuyt, invece, ha imparato la lingua di Kadare su richiesta di un editore, vicenda originale raccontata sul sito del premio di traduzione Aleida Schot7: “Intorno al 1994 un editor della casa editrice Van Gennep chiese a un membro della giuria del premio se conosceva qualcuno in grado di tradurre dall’albanese. L’editore aveva acquisito i diritti delle opere di Ismail Kadare, ma non aveva nessuno cui affidare una traduzione diretta dall’albanese. Il membro della giuria rispose senza esitare: ’Rivolgetevi a Roel Schuyt. Non sono certo che conosca l’albanese, ma se serve lo imparerà’”.

Ho avuto un solo, breve scambio con Ramón Sánchez Lizarralde, a cui mi sono rivolta dopo aver scoperto che il traduttore di Le monstre non era Papavrami ma Vrioni. Non mi rassegnavo all’idea di non poter chiedere delucidazioni a qualcuno che avesse letto il testo in albanese, e dopo una rapida ricerca ho individuato in Lizarralde il mio salvatore. Nell’email in cui mi allegava il testo di El monstruo, scriveva: “È davvero un peccato che non si riesca a trovare un bravo traduttore diretto [in italiano]… Non voglio sembrarti presuntuoso, ma se trovi delle differenze tra il francese e lo spagnolo, la mia versione sarà quasi sempre più fedele (anche per quanto riguarda il fraseggio e il tono)”.

Le due traduzioni erano effettivamente dissimili, come ha rivelato un certosino confronto. In alcuni punti ho corretto quelli che erano veri e propri errori di Vrioni (o forse, chissà, dello stesso Kadare). In altri mi sono attenuta alla traduzione francese. Più volte ho invocato la protezione di san Girolamo, chiedendomi che senso avesse quell’imperfetta triangolazione letteraria. Ho trovato un principio di risposta in un articolo di Lizarralde uscito nel 2001 sulla rivista online El Trujamán8. Ricordando i tempi in cui Kadare era ancora sconosciuto in Spagna, Lizarralde scriveva: “Fu all’incirca nel 1988 che, dopo anni di peregrinazioni tra case editrici, nel tentativo di convincere i direttori che valeva la pena di pubblicare Ismail Kadare in spagnolo e che, naturalmente, io ero la persona adatta per tradurre le sue opere, m’imbattei (o forse fu lui a imbattersi in me) in un editore che da tempo inseguiva il mio autore ma si rifiutava di promuovere un’operazione di doppia traduzione (dal francese). Era Mario Muchnik, all’epoca a capo della casa editrice che ancora oggi porta il suo nome. Pieno d’immotivata fiducia nelle mie doti letterarie, si appassionò da subito al progetto […] e mi misi (mi mise) al lavoro. Non fu facile. La casa editrice francese che aveva i diritti universali sull’opera di Kadare si mostrò decisamente restia all’idea che venisse tradotto dall’albanese e all’epoca i miei rapporti con l’autore erano quasi inesistenti. Più volte ci chiesero di usare la versione francese come punto di partenza di quella spagnola. Mario, però, s’impuntò, mi sostenne e proseguimmo il nostro lavoro”.

Fayard, rappresentata dall’agenzia letteraria The Wylie Agency, possiede i diritti sulla traduzione dei libri di una serie di autori non francesi, tra cui Kadare. E stando al racconto di Lizarralde, racconto peraltro confermato dall’alta percentuale di doppie traduzioni di opere di Kadare, preferisce che la versione francese sia considerata quella di riferimento. Per quale motivo un autore e il suo editore dovrebbero prediligere il doppio passaggio tra testo e lettore, con tutti i rischi che comporta?

Nel suo articolo Orthofer formula un’ipotesi interessante: “Un’ultima spiegazione della bizzarra scelta di tradurre un testo già allontanato di un grado [once removed] dall’originale potremmo cercarla in ciò che l’editore vuole presentare: forse non è il testo originale che punta a offrire al pubblico anglofono, ma la traduzione”. Orthofer fa poi l’esempio del romanzo di Sándor Márai Le braci, tradotto in inglese dalla versione tedesca di Christina Viragh, Die Glut. E immagina che gli editori Knopf (negli Stati Uniti) e Viking (in Gran Bretagna) abbiano fatto una considerazione di natura principalmente economica: “Visto il successo di critica e di vendite della versione di Viragh (e il poco interesse suscitato per circa sessant’anni dalla versione ungherese di Márai del 1942), quest’ipotesi non sembra poi tanto astrusa”.

Nel caso di Kadare abbiamo un editore, Fayard, che incoraggia altri editori a prediligere la doppia traduzione, e lo fa con l’appoggio dell’autore. Se la motivazione economica non è da escludere del tutto (in fondo la fama di Kadare è sbocciata dalla penna raffinata di Jusuf Vrioni), c’è chi spiega altrimenti la volontà di mettere in ombra la versione originale.

Una premessa: il concetto stesso di versione originale, riferito a Kadare, è problematico. Come spiega Lizarralde nella prefazione di El nicho de la vergüenza, Kadare ha approfittato della pubblicazione delle sue opere complete, edite in Francia da Fayard e in Albania da Onufri, per rivedere i suoi testi: “Nella maggior parte dei casi si tratta di correzioni e modifiche di carattere strettamente stilistico. A volte si arriva alla ricostruzione di alcuni personaggi e di passaggi che non convincevano del tutto Kadare. Ci sono infine casi in cui i cambiamenti consistono, da un lato, in un ritorno alla stesura originaria del testo, alterata dall’autore per motivi dettati dalla censura o dalla convenienza politica, con lo scopo di assicurare la sopravvivenza dell’opera a seguito delle critiche ricevute; dall’altro, nell’eliminazione di elementi che fin dal principio dovevano servire a far pubblicare il testo alle condizioni del regime dell’epoca”.9

La pubblicazione delle opere complete è cominciata nel 1993, ma fin dalle prime traduzioni in francese Kadare ha preso l’abitudine di rivedere i suoi testi. Per “versione originale”, quindi, si possono intendere tre testi diversi (almeno nel caso dei romanzi più famosi di Kadare, scritti prima che lasciasse l’Albania nel 1990): la prima versione pubblicata in albanese; la versione di Jusuf Vrioni, rivista con l’accordo dell’autore, da cui come sappiamo deriva gran parte delle traduzioni in altre lingue; la versione albanese rivista e corretta.

Per riprendere il ragionamento di Orthofer, cos’è, dunque, che Fayard vuole “presentare” al pubblico? Semplicemente una versione migliorata delle opere di Kadare? E in che modo la percezione che i lettori hanno dell’autore è stata influenzata dal monopolio dell’editore francese? Qui tocca evocare, almeno a grandi linee, la decennale querelle tra difensori e detrattori di Kadare, rianimata nel 2005 dall’assegnazione del primo Man International Booker Prize all’autore albanese10 . Per i suoi ammiratori, che oltre al talento letterario ne elogiano il coraggio di fronte al regime comunista, il riconoscimento era più che meritato. I suoi detrattori hanno invece denunciato l’ennesima mossa di una campagna che, da anni, occulterebbe la vera natura di Kadare: quella di un uomo complice del regime comunista, ma così abile da compiere un discreto voltafaccia dopo il trasferimento in Europa, modificando opportunamente le sue opere precedenti ed ergendosi a simbolo della resistenza contro la ferocia della dittatura.11.

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Tra questi due estremi troviamo posizioni più sfumate, in particolare quella di Peter Morgan, docente di Studi europei all’Università di Sydney e autore di un recente studio biografico su Ismail Kadare12. Senza negare l’ambiguità dei rapporti che legavano Kadare al regime comunista, Morgan la interpreta come una strategia di sopravvivenza, resa vincente anche grazie al ruolo delle traduzioni. In un articolo del 2008 Morgan ricorda che nei paesi socialisti “la linea tra opposizione e collaborazione era spesso sottile”13. Pur riconoscendo i privilegi riservati a Kadare – membro del sindacato degli scrittori e in seguito deputato, non fu mai incarcerato né sanzionato in alcun modo e poté sempre viaggiare all’estero e pubblicare i suoi testi – Morgan sostiene che “Kadare non era libero di rifiutarli, e che [quei privilegi] avevano un prezzo. Come ogni altro aspetto della sua vita in Albania, erano controllati dall’alto. Per sopravvivere, Kadare dovette adeguarsi al regime e usare i suoi privilegi per promuovere la causa della sua scrittura”14 . In un altro articolo intitolato “Translation and dictatorship”, Morgan afferma che nelle traduzioni di Jusuf Vrioni Kadare trovò un’ancora di salvezza, “l’unico modo per salvaguardare la propria opera nella forma che voleva”15 . Le traduzioni, anche se successive alla versione in albanese, sarebbero quindi più originali perché libere dalle catene della censura e dell’autocensura.

Le analisi di Morgan si basano sulla distinzione – difesa dallo stesso Kadare – tra dissenso politico e letterario. Kadare, argomentano i suoi ammiratori, non ha mai sostenuto di essere un Vaclav Havel. La sua resistenza si è espressa attraverso la creazione e la scrittura, e il suo valore andrebbe giudicato unicamente sul piano letterario. Sofismi, ribattono diversi studiosi, che spesso – a differenza di Morgan, Bellos e altri difensori di Kadare – parlano albanese. È il caso degli albanologi canadesi Robert Elsie e Barry Baldwin, entrambi critici verso Kadare anche se con toni diversi: più misurato Elsie, che sul suo sito personale (Albanianstudies.net) firma un ritratto nell’insieme lusinghiero di Kadare ma che in altre sedi ha descritto anche i lati meno nobili del personaggio; categorico Baldwin, che passando al setaccio le dichiarazioni e gli scritti di Kadare dopo il 1990 e confrontandoli con numerose fonti albanesi, ne deduce che l’autore dei Tamburi della pioggia è un impostore, capace di macchiare la memoria di scrittori e intellettuali come Arshi Pipa, Fatos Lubonja e Kasëm Trebeshina che, a differenza sua, ebbero il coraggio di opporsi al regime di Hoxha e ne pagarono le conseguenze16 .

Il contrasto con i commenti agiografici generalmente riservati a Kadare è forte, come forti sono le riserve di molti albanesi verso quello che il mondo intero considera il loro più grande autore ma che ai loro occhi, nonostante il successo di critica e i riconoscimenti internazionali, rimane un uomo compromesso con il regime di Hoxha. Il giovane scrittore e giornalista Darien Levani, che vive in Italia dal 2000, mi ha raccontato un aneddoto che riassume il sentimento generale dei suoi connazionali: “Mesi fa ero in Albania e stavo guardando la televisione in un’osteria. C’era Kadare che raccontava quanto aveva sofferto durante il comunismo. Nessuno si capacitava: ’Ma se era ricco, era deputato, abitava a Tirana, aveva la casa e lo stipendio pagati dal Partito…’, ha detto un cliente sulla cinquantina”. Se tra i giovani, costretti a studiarlo a scuola, Kadare ha preso le sembianze polverose di un Manzoni, per molti albanesi rimane una figura controversa: “Come scrittore è molto apprezzato”, conclude Levani, ma “come uomo è difficile da amare”.

Non sta agli editori decifrare il passato di Kadare o giudicarne la caratura morale. Possono però ridurre la distanza tra le sue opere e i suoi lettori, voltando una pagina poco gloriosa della storia della traduzione.

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