Tiziano Scarpa traduttore: importantissimo scegliere la parola giusta, quella su cui si addossa tutto il peso architettonico della frase

Tiziano Scarpa traduttore: importantissimo scegliere la parola giusta, quella su cui si addossa tutto il peso architettonico della frase

Un grande autore italiano, Tiziano Scarpa, traduce un libro importante, doloroso, essenziale, forte del giornalista e scrittore brasiliano Diogo Mainardi.
Subito nasce la curiosità: come avrà lavorato? Quali difficoltà avrà incontrato? Che significato assume la traduzione per uno scrittore?


Scrittori tradotti da scrittori è stata una collana fondamentale dell’Einaudi, che si rifaceva all’esperienza di Vittorini, e che ha dato origine a libri di altissima qualità. Sintetizzando in modo commerciale: due libri al prezzo di uno. Non a caso, credo, la casa editrice torinese è ancora oggi tra le più attente alla qualità e al valore della traduzione. Sono convinta che questo libro non avrebbe il medesimo impatto narrativo se non fosse stato tradotto da un cesellatore della parola come te...

Guarda, ti interrompo subito. Non sono d’accordo. 
Il libro di Diogo è nitido, cristallino, molato nel quarzo trasparente. Ha frasi lapidarie, perentorie. È un libro sofisticato nella semplicità. 
Quando lo lessi in portoghese, lo capii perfettamente: eppure io non domino quella lingua. Credo che Diogo abbia fatto una scelta stilistica che è anche politica: è una mia idea, ma sono convinto che lui volesse fortemente che questa storia la capissero anche i semianalfabeti. Aveva vissuto (sta vivendo) un’esperienza clamorosa, intensissima, che intendeva far conoscere il più possibile. Perciò ha messo in azione tutta la sua sapienza artistica, di scrittore raffinato, umoristico, diretto, colto, umanissimo. Ha scritto frasi brevi, luminose, profonde, divertenti. Ha costruito sequenze limpide e irresistibili, sia quando vuole commuovere, sia quando vuole far ridere. 
Non è un caso che nel libro vengano fuori Hitchcock e Gianni e Pinotto: un regista e dei comici, cioè quel tipo di artisti che sanno dosare i tempi quasi matematicamente, per provocare reazioni pure, spavento, suspense, allegria, risate.

Tu non sei un traduttore di mestiere (se non erro hai tradotto un libro di Bukowski nel 1999 e basta) come non lo erano molti tuoi illustri predecessori. La prima curiosità è legata a questo tema: come hai impostato il tuo lavoro? Come hai affrontato la traduzione di questo testo che non appartiene alla narrativa né alla saggistica, ma è un insieme di considerazioni, esperienze, idee, pensieri dell’autore estremamente autobiografici? In sintesi: come lavora uno scrittore che traduce un altro scrittore? come riesce a misurare la sua voce per darla a un altro? 

Hai ragione, non sono un traduttore e non voglio sostituirmi a chi lo fa di mestiere, sarebbe arrogante. 
Questa è un’eccezione molto particolare, causata da tre motivi. 
Il primo: Diogo è un amico, conoscevo la storia che racconta, ho assistito ad alcuni momenti e tappe. 
Il secondo: sono veneziano e ho scritto su Venezia, che nel libro di Diogo è, di fatto, uno dei personaggi. 
Il terzo: pubblico con Einaudi, ho accettato la loro proposta anche perché sapevo di poter contare sulla supervisione di Diogo, che parla italiano meglio di me. Detto questo, la traduzione di La caduta è stata un’esperienza entusiasmante. Proprio per quello che ti dicevo prima, ogni frase, ogni parola di questo libro sono state soppesate dall’autore al milligrammo. Lo capisci e ne godi profondamente quando attraversi un libro in questo modo, dall’interno. Tra leggere e tradurre corre la stessa differenza che c’è tra ascoltare un brano e eseguirlo con uno strumento. 
Il lavoro l’ho impostato in maniera molto semplice. Traducevo a blocchi, collaudavo la traduzione a voce alta. Non mi sono mai sentito solo, perché Diogo e sua moglie Anna leggevano le pagine che gli mandavo per posta elettronica e mi indicavano premurosamente i luoghi della Caduta in cui ero inciampato e caduto anch’io. Non ho incontrato particolari difficoltà di comprensione, perché il testo originale è chiarissimo, vuole esserlo. La sfida è stata riuscire a scegliere certe parole-perno che avessero la stessa densità, la stessa intensità dell’originale. Siccome Diogo ha scelto la sintesi, la concisione, l’essenzialità, nel suo testo succede spesso di incontrare parole-architrave, che un altro scrittore magari avrebbe diluito in una perifrasi, in una frase intera. Così diventa importantissimo scegliere la parola giusta, quella su cui si addossa tutto il peso architettonico della frase. In questo senso, mi sembrava quasi di tradurre della poesia, più che della prosa (ma attenzione: come sai bene tu che hai letto il libro, non mi riferisco a una prosa lirica, sentimentalistica: ho menzionato la poesia solo per il suo aspetto sintetico).

In questi anni sono stati pubblicati molti libri che narrano il rapporto padre-figlio legato alla disabilità. Ma questo lo fa in un modo nuovo, drammatico e al tempo stesso ironico. Intelligente. Come lo presenteresti a un lettore? 

Come hai appena fatto tu. Il libro sta ricevendo reazioni entusiastiche. Chi lo legge ne rimane travolto, per commozione e allegria purificatrice. 
Lo stesso succede durante le letture sceniche che ne faccio, la gente piange e ride. È un libro che, certo, racconta che cosa succede quando, per un errore medico durante un parto, un figlio nasce con una disabilità che segna la sua vita e quella dei suoi famigliari. Ma racconta anche che cosa succede quando la vita comincia a girare intorno a un perno, si avvolge su un centro di riferimento. Tito ha rivelato Diogo a sé stesso, il figlio ha rivelato al padre chi è il padre. Detto in termini più astratti, un evento ha realizzato in maniera inaspettata, traumatica e amorosa la personalità di chi lo ha generato e se ne è preso cura. 
“Tito era il risultato di tutto ciò che avevo visto e letto. In particolare, era il risultato di tutto ciò che amavo”, è uno dei punti-chiave del libro. Leggendo questo libro esile e poderoso, si sente il brivido di chi si trova di fronte alla verità, alla verità che lo riguarda personalmente, e ci entra dentro. È come se qualcuno scoprisse la porta destinata a lui, soltanto a lui, e la varcasse, invece di restare tutta la vita davanti alla legge che lo riguarda, davanti alla porta aperta senza entrare, come succedeva nel racconto di Kafka.

Ti piace tradurre? Proseguirai? Quanto interferisce con il tuo lavoro di scrittore (cioè, mentre traduci riesci anche a scrivere)? 

Non ho in programma altre traduzioni. A meno di eccezioni molto speciali. Questa esperienza mi ha impegnato per un periodo limitato, il libro di Diogo è breve. E, in generale, sono abituato a seguire contemporaneamente cose diverse. Mi permette di uscire per un po’ da un libro per farmi crescere il desiderio di rientrarci.

A cura di Giulia Mozzato

Reply to this post

Posta un commento